I
lavoratori italiani, per preparazione, impegno e produttività sono tra i migliori al mondo.
La produttività
complessiva del “sistema Italia” è il vero problema, sul quale né lavoratori né
imprenditori possono incidere direttamente.
Si sente parlare
spesso, negli ultimi tempi, di produttività.
Persino il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha detto più volte che
l’Italia deve recuperare produttività, per competere sui mercati internazionali
e superare la crisi economica. Chissà quanti, nel sentire queste affermazioni,
sono indotti a credere che i lavoratori o le aziende italiane lavorino meno (o
peggio) di altri e che quindi debbano aumentare i ritmi di lavoro e gli investimenti
in tecnologie e migliorare l’organizzazione aziendale. Per fare chiarezza, e
rendere giustizia ai lavoratori e agli imprenditori italiani, bisogna
comprendere cos’è e come si misura questa “benedetta produttività”.
In
termini tecnici, la produttività è il rapporto
tra la produzione ottenuta e il tempo lavorativo impiegato allo scopo.
Quando il rapporto è fatto tra le unità prodotte da uno o più lavoratori
diretti (che effettivamente eseguono trasformazioni) e il tempo da loro
impiegato si parla di “produttività diretta”. Quando la produzione è rapportata
alle prestazioni dei diretti più gli indiretti (capi, assistenti, manutentori,
magazzinieri, …) si parla di “produttività di reparto o di stabilimento”.
Quando al divisore si aggiungono anche le prestazioni di impiegati e dirigenti,
si parla di “produttività aziendale”.
Siccome
in economia tutto si misura in valori monetari, i termini tecnici “unità
prodotte e tempi” sono convertiti nei corrispondenti “valore della produzione e
costo dei fattori produttivi”. Allora, la “produttività economica” di un’azienda
è il rapporto tra il valore della
produzione vendibile, ottenuta in un dato periodo, e il costo dei fattori
produttivi riferibili al medesimo periodo.
Bisogna
ricordare che il valore della produzione dipende da molti fattori (tipologia,
qualità, prestazioni, marchio, …); che la quantità di produzione ottenuta
dipende dai lavoratori, dall’organizzazione, dagli investimenti tecnici; che
nel costo dei fattori produttivi confluiscono molte voci, oltre a salari e
stipendi e relativi oneri (costi di energia, dei trasporti, del denaro per gli
investimenti e l’esercizio, imposte, …).
Come
abbiamo visto, per un’azienda possiamo individuare diversi tipi o livelli di
produttività che, in questa sede, posiamo riassumere nelle due più importanti,
quella tecnica dei lavoratori e quella economica o globale dell’azienda. A
queste due dovremo aggiungere almeno un livello sovra aziendale che potremo
chiamare “produttività del sistema”. Quest’ultima, in accordo con quanto detto,
è il rapporto tra il valore prodotto dal
sistema, in un dato tempo, e i costi generati dal sistema nel medesimo periodo.
La matematica non lascia scampo: il rapporto è favorevole quanto più alto è il
dividendo (il valore della produzione) e più basso il divisore (i costi del
sistema).
Per
quanto ho potuto osservare, nei molti paesi in cui ho operato come consulente
tecnico, solo in Svezia ho riscontrato una “produttività diretta” (dei
lavoratori) superiore all’Italia. I lavoratori italiani, per preparazione, impegno
e, in ultima analisi, produttività sono tra i migliori al mondo. Anche la
“produttività globale” delle aziende italiane è competitiva per quanto attiene
i fattori che possono controllare autonomamente (produzione, organizzazione,
impianti e investimenti) ma è penalizzata dai fattori che non può controllare
(costi energetici e di trasporto, infrastrutture, burocrazia, incertezze
normative, lungaggini giudiziarie, oneri sociali e fiscali elevati e a volte
impropri, …).
Per
questo, è la produttività complessiva del “sistema Italia” il vero problema,
sul quale né lavoratori né imprenditori possono incidere direttamente. La
questione è complessa e la lascio ben volentieri a economisti e politici. Si
può però ricordare che, in accordo con la formula data, l’indice di
produttività migliora se cresce il valore della produzione. Perché ciò si
verifichi, sono necessarie due condizioni: che aumentino i lavoratori e che tra
questi sia maggiore il numero dei “diretti-produttivi” e si riducano gli “indiretti”
che, pur necessari perché il sistema funzioni correttamente, non aggiungono
valore.
In
altre parole servono più occupati e tra questi un maggior numero di “aggiuntori
di valore” e un minor numero di “incrementatori di costo”. La Francia, per esempio,
con una popolazione superiore all’Italia del sette per cento ha un prodotto
interno lordo (il citatissimo PIL) superiore al nostro del ventidue per cento.
Ciò è dovuto principalmente al maggior tasso di occupazione (64%) rispetto al
nostro (57%) e a un miglior utilizzo della stessa, privilegiando le attività
che incrementano valore e minimizzando l’incidenza dei servizi - pubblici e
privati - mediante un’efficace organizzazione e controllo degli stessi.
Per
finire, quando si auspica, una “maggiore produttività” bisognerebbe aggiungere
del “sistema Italia” e avere l’accortezza di dire che ciò implica
principalmente (quasi esclusivamente, oserei dire) azioni che sono nell’esclusiva
facoltà di legislatori e amministratori pubblici. Non lasciar credere che si
dovrebbe lavorare di più e meglio nelle aziende private; cosa, per altro,
sempre possibile e costantemente ricercata dalle imprese italiane.
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