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sabato 20 aprile 2013

LA RESPONSABILITA' SALVERA' L’ITALIA


La responsabilità deve essere l’atteggiamento e la condizione a base dell’azione pubblica e privata.
Solo il comportamento responsabile dei singoli, dei gruppi e delle organizzazioni - sociali, politiche, istituzionali - può invertire la tendenza e creare le condizioni per una ripartenza del paese.

Qualche giorno fa sono passato da Feletto Umberto, un paese un poco fuori mano nelle vicinanze di Udine. Con il navigatore ho calcolato che dista 46 chilometri dal paese dove ho frequentato le scuole elementari e, secondo lo stesso, ci vogliono un’ora e dieci minuti di autovettura per coprire la distanza. Una mia maestra delle elementari, però, percorreva questa strada con la Lambretta degli anni Cinquanta e allora non tutte le strade erano asfaltate. Tutti i giorni, andata e ritorno. Era puntuale, si cominciava alle otto e trenta e si finiva all’una meno un quarto, per recuperare i quindici minuti di ricreazione. In due anni d’insegnamento, mancò un solo giorno, lo ricordo bene perché fu un avvenimento. Pioveva e nevicava, allora come ora, ma lei puntuale alle otto e quindici parcheggiava la Lambretta e all’orario stabilito teneva lezione. Non si sgarrava di un minuto, né all’inizio né in chiusura né per la ricreazione.
     Era una scuola in collina di due sole pluriclassi, l’edificio era isolato rispetto alle case sparse del paese. La direzione didattica era situata in un altro comune a una decina di chilometri. Ricordo bene che il direttore veniva a visitare la scuola una sola volta l’anno. Le due maestre (si) gestivano da sole la didattica e ogni aspetto connesso. Il Comune si occupava esclusivamente dell’eventuale manutenzione dell’edificio e per la pulizia provvedeva una signora che abitava nelle vicinanze. Non si parlava ancora di bidelli o di ausiliari strutturati. Insomma, per farla breve, il tutto era sotto la responsabilità delle maestre, ognuna per le sue classi. Quelle maestre furono veramente, totalmente ed efficacemente responsabili. Lo possono assicurare i discenti di allora. Lo furono pur non avendo controlli ravvicinati, gerarchici, funzionali, terzi o interessati. Nel nostro caso il controllo era quasi nullo, loro lo sapevano, eppure facevano tutti i giorni, per l’intero anno scolastico il loro dovere. Erano “intrinsecamente” responsabili.
     Si dice spesso che bisogna recuperare l’etica, il senso del dovere, per riannodare i fili di una società in degrado; per ridare fiducia ai cittadini soprattutto nei confronti delle istituzioni, delle amministrazioni, degli enti che costituiscono, nell’insieme, lo Stato. Ebbene, prima e più di tutto, per un vero recupero va reintrodotta la responsabilità, a tutti i livelli. Bisogna che tutti siano responsabili, nel loro lavoro, nelle loro funzioni. Bisogna che ognuno, in ogni luogo, pubblico o privato, prenda consapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti e modo di agire che ne deriva. In ogni contesto deve essere assicurata la condizione di dovere rendere conto di atti, avvenimenti e situazioni in cui si ha una parte, un ruolo. Solo così l’Italia può ripartire e rimanere agganciata al treno dell’Europa.
                                                                                              umuzzatti@gmail.com

giovedì 18 aprile 2013

DECENTRAMENTO O AUTONOMIA, PER LE REGIONI E GLI ENTI INTERMEDI?


Su quanti livelli istituzionali dovrà essere riorganizzato lo Stato?
Come saranno strutturati gli enti intermedi? E quali le loro funzioni? 
Prima di rispondere sarà meglio studiare le soluzioni adottate in Europa.

In “Perché l’autonomia della Provincia” - su Autonomie, n. 10/2007, Centro Studi Friulani, Udine - con la conoscenza e la competenza dell’uomo di legge, Marcello Perna, autonomista triestino, evidenzia il solco che si è creato in Italia tra il “paese legale” e quello “reale” e il venir meno del rapporto fiduciario tra politica e cittadini. Egli ricorda che le riforme strutturali che oggi si impongono sono principalmente di un triplice ordine: “Riduzione delle tasse e riordino del sistema fiscale; rilancio delle intere possibilità economiche nazionali; revisione dell’apparato burocratico e dei servizi pubblici”. La radice del “problema italiano” è correttamente individuata nel centralismo dello Stato, nel non sufficiente decentramento e nella mancata autonomia delle istituzioni territoriali. Questo tipo di analisi, e la prognosi che ne consegue, travalicano finalmente gli ambienti autonomisti e diventano elemento di dibattito in fasce sempre più ampie della società, in attesa che la politica se ne occupi concretamente. Nessuno s’illude più che la “questione italiana” si possa risolvere con un’“ordinaria amministrazione” entro il quadro normativo attuale. Sono necessari cambiamenti strutturali, è urgente una forte e diretta responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti portando gli ambiti normativo, amministrativo, di spesa e di controllo, al più basso livello possibile, vicino al cittadino e al contribuente.
     Perna ricorda come l’art.5 della Costituzione, inerente allo sviluppo delle autonomie locali e il decentramento dei servizi che dipendono dallo Stato, sia rimasto in buona parte inapplicato e auspica l’innovazione necessaria per “raggiungere un nuovo equilibrio dinamico nella distribuzione dei poteri tra centro e periferia”. Auspicio che è la ragion d’essere e la base dell’azione del movimento autonomista. Tuttavia, a quasi sessant’anni dalla promulgazione della Costituzione è lecito domandarsi se, allo stato attuale e nelle prospettive future, si possa confidare in una tardiva applicazione per risolvere le questioni inerenti, o se invece non sia venuto il tempo di por mano, con le dovute procedure, alla Costituzione stessa. Poiché, né la quarantennale “prima Repubblica”, né la “seconda” è riuscita a scalfire il centralismo e ad avviarci a una qualche forma, più o meno spinta, di federalismo.
     Già, lo Stato federale: questo è il punto, il vulnus della nostra Costituzione. Non ce ne vogliano i “Padri”, a partire da Oscar Luigi Scalfaro strenuo difensore della Carta, sappiamo bene che in essa vi è tanto di eccellente, ma questa mancata previsione è alla base del “problema italiano”. Se c’é uno Stato che, in ragione della sua storia, geografia, economia, cultura, lingue, doveva, e deve, essere una federazione, questi è l’Italia. Si può comprendere che, essendosi compiuta l’unità da parte di una monarchia, allora la questione non si poneva nemmeno, ma all’avvento della Repubblica, questa doveva essere federale. Come la Germania e l’Austria che uscivano disastrati dalla guerra al pari dell’Italia. La mera applicazione del vigente art. 5 della Costituzione poteva andar bene per il decentramento sul territorio dei poteri e servizi dello Stato, ma si rileverà del tutto inadeguato per un’autentica autonomia delle frazioni territoriali di primo livello che lo compongono. Con l’autonomia (vera) molte competenze e funzioni sono esclusiva delle istituzioni locali e ivi allocate di diritto, non decentrate. Allo Stato centrale rimangono solo le competenze che, per economia di scala ed esigenze di uniformità, è bene lasciare in capo allo stesso ed, esclusivamente per queste, è da prevedersi il decentramento, quando riguardano l’intera popolazione e tutto il territorio nazionale. Solo una riforma in senso federale dello Stato è in grado di assicurare l’autonomia necessaria per arrestare la deriva che ci allontana dall’Europa e dal novero dei paesi ad alto tasso di sviluppo, civile ed economico.
     Per quanto attiene alle ripartizioni/istituzioni territoriali, Perna osserva che: “Il Comune costituisce un lembo di territorio troppo piccolo per porsi a presidio di peculiari interessi o elaborare strategie politico-economiche significative, mentre la Regione è un’espressione politico geografica corrispondente a un concetto troppo vasto, e per sua natura in realtà ambiguo, inadatto a offrire affidamento a tutte le collettività locali che la compongono…”. Per quanto sopra, egli individua nella Provincia il livello territoriale ottimale, l’istituzione da rendere autonoma: “Il centro della vita pubblica, politica ed economica…”. Sul Comune siamo pienamente d’accordo: sono troppo piccoli, non solo per elaborare strategie politico-economiche, ma anche per l’erogazione dei servizi cui sono preposti. Per le Province, però, si può osservare che mantengono buona parte dei limiti attribuiti alle Regioni: sono esse stesse un’espressione politico geografica non omogenea. La provincia di Pordenone, per esempio, soffre tuttora della tripartizione storica: area friulanofona, area venetofona e capoluogo che non è mai stato riferimento per nessuna delle prime due. Il tutto è perpetuato e attualizzato da uno sviluppo differenziato che, non per caso, ricalca la divisione in tre del Friuli occidentale. Lo stesso è per la provincia di Gorizia. E per quella di Udine l’articolazione, in circoscrizioni con un sufficiente livello di omogeneità, è anche maggiore. Non diversa è la situazione nella gran parte delle province italiane. Osta ancor più a un rinnovato e maggior ruolo delle Province il fatto che l’effettiva autonomia, grande o piccola, si ha con il potere legislativo che tanto l’Italia, quanto l’UE, riconoscono al livello regionale. Certo, tutto si può modificare, ma la dimensione delle Province italiane non sono sufficienti per far loro assumere questo ruolo.
     Per i motivi detti la sorte della Provincia appare segnata, nonostante la strenua difesa da parte di non marginali frange politiche e sociali che già hanno avviato una capillare azione di lobbying. Non vi è più ragione di avere cinque istituzioni elettive principali: Comune, Provincia, Regione, Stato, UE. Imprescindibili esigenze di efficacia ed economia di erogazione dei servizi, impongono una riorganizzazione su quattro livelli che in Italia avrebbero già dovuto esserci. Non fosse che, approvato quello nuovo –la Regione- non si è soppresso quello precedente –la Provincia- che era funzionale alla gestione del territorio da parte dello Stato centralista, ma non può costituire la base per una riorganizzazione dello Stato in senso federalista, quale che sia il grado di autonomia e le competenze da lasciare in capo alle “unità federate”.
     Per disegnare l’articolazione delle autonomie locali, poi, non si potrà derogare a due principi guida tesi, il primo ad assicurare a tutti i cittadini, l’erogazione dei servizi al massimo livello qualitativo e al minor costo possibile, e il secondo a garantire la più ampia e diretta partecipazione alla gestione della cosa pubblica, entro livelli istituzionali condivisi, di cui il cittadino si senta parte costituente, ovvero comunità. Raccogliendo a fattor comune i diversi elementi si vede come l’Istituzione autonoma e intermedia, dotata di potere legislativo, in Italia e in Europa, non possa che essere la Regione. Per quanto attiene la partizione interna alla stessa, riconosciuti troppo piccoli i Comuni attuali, troppo grandi, non omogenee e non rappresentative di comunità univoche le Province e accertata la necessità/fattibilità della riduzione dei livelli amministrativi, bisogna individuare una partizione/istituzione territoriale che si sostituisca a entrambe rispettando il senso di appartenenza della popolazione e le imprescindibili esigenze di efficacia ed efficienza. Per il nome non c’è che l’imbarazzo della scelta, potrà chiamarsi Comunità, Comprensorio, Distretto, Supercomune o altro ancora. Per quanto riguarda invece la sostanza, ovvero il dimensionamento, l’individuazione, e perimetrazione -salvo aggiustamenti, da lasciare all’autodeterminazione democratica- la storia ci consegna pronti e condivisi questi aggregati territoriali, cementati da vicende secolari: i Mandamenti. Intesi ovviamente come circoscrizioni intermedie, tra comuni e circondari, ovvero come aggregazione di municipi di un territorio e di una popolazione sufficientemente omogenei. Tutti gli abitanti dei comuni facenti parte, anche se attualmente non vi sono vincoli istituzionali, riconoscono il ruolo preminente del centro mandamentale, se ne sentono parte e nessuno, più di questo, conosce e condivide le sorti del territorio afferente. Ecco che, federando i Comuni del Mandamento, si può ottenere quel Supercomune (che per altro verso è il “Minimo Comune Necessario”) indispensabile per un’efficace riforma delle autonomie locali e di cui, per altro, sono già provate l’esistenza e la bontà, si veda in Austria. Ove vi sono le condizioni, il “Supercomune” potrà avere anche un’estensione maggiore, sino a quella che era il Circondario. Le previste “Città metropolitane” in fondo ricalcano la logica del Circondario che era ed è l’ambito territoriale di gravitazione di una città.
     Non è questa la sede per scendere nei dettagli ma si può intanto assicurare che tutti i Municipi resteranno aperti, operativi e, anzi con un maggior ventaglio di servizi, in quanto un ristretto numero di operatori qualificati, mediante postazioni connesse ai server del Supercomune, della Regione e, perché no, di alcune amministrazioni dello Stato, potranno evadere pratiche e rilasciare documenti che, attualmente, il cittadino deve rincorrere in sedi remote. A firmare sarà il Sindaco che, nei paesi più piccoli, potrà essere anche il solo eletto e che, assieme ai rappresentanti degli altri Comuni andrà a formare il Consiglio intercomunale strutturato nelle forme e con le figure necessarie: presidente, assessori, consiglieri. Nel complesso il Consiglio e la Giunta del “Supercomune”, pur assicurando la rappresentanza di tutti i Municipi federati, non supereranno numericamente quelli attuali del più grande di essi. E’ superfluo rilevare che un’adeguata individuazione dei Supercomuni, rispettosa anche dei vincoli orografici, permette la soppressione dell’ente di secondo livello Comunità montana, senza nulla togliere, anzi liberando risorse da investire in loco da parte dei Supercomuni di montagna.
     Concludendo è interesse generale dell’Italia attuare una riforma in senso federalista dello Stato e, in ogni caso, riconoscere la più ampia autonomia alle partizioni di primo livello individuate nelle Regioni. Lo è in particolar modo per il Sud, perché il centralismo ha danneggiato principalmente quella parte del Paese e solo responsabilizzando le popolazioni e le amministrazioni locali è possibile un riscatto. E’ necessario completare la riforma regionalista togliendo dalla Costituzione il vincolo sulle Province e riconoscendo alle singole Regioni la potestà di riorganizzare le autonomie locali. Tra l’altro l’abolizione delle Province consentirà un più razionale e capillare decentramento dei servizi (auspicabilmente pochi) che rimarranno di esclusiva pertinenza dello Stato, andando a collocarli anche nei medi centri e non più solo nelle città ex capoluoghi di Provincia. A quel punto le Regioni, dotate di autonomia legislativa in alcune materie, riorganizzeranno la propria articolazione amministrativa su due livelli: il proprio, con funzioni di alta programmazione, coordinamento generale e controllo, oltre a poche competenze dirette di area vasta, e i “Supercomuni”, equiordinati e quindi a loro volta dotati di specifica autonomia, che diventeranno i principali, più prossimi e quindi più efficaci, erogatori di servizi ai cittadini.
                                                                                                umuzzatti@gmail.com

lunedì 15 aprile 2013

EMERGENZA LAVORO, COSA PUO’ E DEVE FARE IL GOVERNO


Per il centro sinistra bisogna “mettere un poco di lavoro”. Per il centro destra è urgente “rilanciare l’economia”. Anche gli altri due movimenti, presenti in Parlamento, dichiarano prioritario lavoro ed economia. Che cosa possono e devono fare il Parlamento e il nuovo Governo, quando ci sarà?

Di certo non potranno stabilmente e proficuamente aumentare l’occupazione con un indiscriminato ampliamento del pubblico impiego. Se siamo qui, in queste condizioni, lo dobbiamo anche (ma non solo) alle infornate di dipendenti assunti, per calcolo elettorale e clientelare, più che per piani di sviluppo e reali esigenze delle varie amministrazioni. Intendiamoci: il complesso del pubblico impiego è fondamentale, indispensabile per lo sviluppo di uno Stato moderno ed efficiente. Per questo deve essere qualificato, motivato, responsabilizzato. Al contempo, però, deve essere dimensionato in base alle reali esigenze e possibilità del paese. Il pubblico impiego del futuro dovrà essere mirato e esclusivamente ai servizi da svolgere, quindi, necessariamente più snello.
     E’ impensabile, anche, viste le esperienze passate, interne e internazionali, un ritorno all’industria di Stato, alle partecipazioni pubbliche in economia. Se, quindi, lo Stato non può direttamente dare “un poco di lavoro” e “rilanciare l’economia”, cosa può realmente fare per tali scopi? Che a tutti appaiono prioritari e con risvolti armai drammatici per molti, dai giovani disoccupati, a quanti perdono il lavoro nella maturità; dai dipendenti, ai professionisti; dagli autonomi ai piccoli e medi imprenditori?
     Lo Sato può e deve creare le condizioni perché riparta l’economia e con questa l’occupazione. Questo è il suo ruolo! Un ruolo strategico nella fase attuale dello sviluppo mondiale e della globalizzazione dell’economia. Bisogna ricreare le condizioni per fare cessare l’esodo delle imprese, degli imprenditori, dei soggetti qualificati. Bisogna far rientrare, almeno una parte, di quanti hanno delocalizzato le loro attività, il lavoro, se stessi. Bisogna attrarre imprese e investimenti esteri. Bisogna che lo spirito imprenditoriale, creativo, lavorativo degli italiani, delle nuove leve soprattutto, possa svilupparsi in loco.
     Solo lo Stato può ripristinare le condizioni perché ciò avvenga. Per questo il nuovo Governo e il Parlamento devono:
-Delegificare, ovvero ridurre e semplificare il quadro normativo; siamo la nazione con il più ipertrofico e farraginoso corpus legislativo: meno norme e più chiare!
-Assicurare la certezza del diritto e ridurre drasticamente i tempi della giustizia.
-Semplificare e snellire gli adempimenti burocratici.
-Ridurre il carico fiscale, diretto e indiretto, su imprese e lavoratori.
-Ridare dignità al lavoro e il giusto riconoscimento sociale a chi lo pratica e lo procura.
-Adeguare le infrastrutture e ridurne il costo di utilizzo.
-Mantenere elevati gli standard formativi a tutti i livelli.
Questo lo può e lo deve fare lo Stato e solo lo Stato. Non altro, come sussidi, incentivi, iniziative economiche dirette, che servirebbero a poco e per un periodo limitato.
                                                                                                umuzzatti@gmail.com

mercoledì 10 aprile 2013

UN ENTE PER IL TERRITORIO E LE COMUNITA'


Bisogna superare il centralismo provinciale e costituire delle aggregazioni di comuni posti su un piano di parità. Com’è in Austria, Germania, Svizzera, tutti stati con ottimi sistemi amministrativi e servizi ai cittadini eccellenti.

Credo che tutti abbiano potuto osservare che nei comuni delle nuove province poco o nulla è cambiato rispetto a prima. Ben diversa è l’evoluzione della città capoluogo, l’unica che beneficia, in modo diretto (maggiori trasferimenti, investimenti, uffici, servizi) e indiretto (sviluppo indotto, affluenza dal territorio, concentrazione emporiale), del nuovo status.
     In generale si può osservare la crescita del capoluogo e il depauperamento del territorio. Il problema è costituito dalla struttura stessa della Provincia italiana, molto incentrata sul capoluogo, da cui prende il nome stesso. Mentre spesso non è rappresentativa di un territorio e di una popolazione omogenea a prescindere dalla dimensione.
     Il problema dell’efficacia e dell’efficienza, nell’erogazione dei servizi al territorio, non si risolve con province più piccole o più grandi, ma modificando la struttura dell’ente intermedio. In particolare superando i privilegi dei capoluoghi, con la separazione amministrativa del territorio (piccoli e medi comuni) dalle città, perché gli stessi hanno problematiche ed esigenze diverse. Com’è in Austria e Germania, due stati con ottimi sistemi amministrativi.
                                                                                               umuzzatti@gmail.com

     

lunedì 8 aprile 2013

LA PRODUTTIVITA' IN ITALIA


I lavoratori italiani, per preparazione, impegno e produttività sono tra i migliori al mondo.
La produttività complessiva del “sistema Italia” è il vero problema, sul quale né lavoratori né imprenditori possono incidere direttamente.

Si sente parlare spesso, negli ultimi tempi, di produttività. Persino il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha detto più volte che l’Italia deve recuperare produttività, per competere sui mercati internazionali e superare la crisi economica. Chissà quanti, nel sentire queste affermazioni, sono indotti a credere che i lavoratori o le aziende italiane lavorino meno (o peggio) di altri e che quindi debbano aumentare i ritmi di lavoro e gli investimenti in tecnologie e migliorare l’organizzazione aziendale. Per fare chiarezza, e rendere giustizia ai lavoratori e agli imprenditori italiani, bisogna comprendere cos’è e come si misura questa “benedetta produttività”.
In termini tecnici, la produttività è il rapporto tra la produzione ottenuta e il tempo lavorativo impiegato allo scopo. Quando il rapporto è fatto tra le unità prodotte da uno o più lavoratori diretti (che effettivamente eseguono trasformazioni) e il tempo da loro impiegato si parla di “produttività diretta”. Quando la produzione è rapportata alle prestazioni dei diretti più gli indiretti (capi, assistenti, manutentori, magazzinieri, …) si parla di “produttività di reparto o di stabilimento”. Quando al divisore si aggiungono anche le prestazioni di impiegati e dirigenti, si parla di “produttività aziendale”.
Siccome in economia tutto si misura in valori monetari, i termini tecnici “unità prodotte e tempi” sono convertiti nei corrispondenti “valore della produzione e costo dei fattori produttivi”. Allora, la “produttività economica” di un’azienda è il rapporto tra il valore della produzione vendibile, ottenuta in un dato periodo, e il costo dei fattori produttivi riferibili al medesimo periodo.
Bisogna ricordare che il valore della produzione dipende da molti fattori (tipologia, qualità, prestazioni, marchio, …); che la quantità di produzione ottenuta dipende dai lavoratori, dall’organizzazione, dagli investimenti tecnici; che nel costo dei fattori produttivi confluiscono molte voci, oltre a salari e stipendi e relativi oneri (costi di energia, dei trasporti, del denaro per gli investimenti e l’esercizio, imposte, …).
Come abbiamo visto, per un’azienda possiamo individuare diversi tipi o livelli di produttività che, in questa sede, posiamo riassumere nelle due più importanti, quella tecnica dei lavoratori e quella economica o globale dell’azienda. A queste due dovremo aggiungere almeno un livello sovra aziendale che potremo chiamare “produttività del sistema”. Quest’ultima, in accordo con quanto detto, è il rapporto tra il valore prodotto dal sistema, in un dato tempo, e i costi generati dal sistema nel medesimo periodo. La matematica non lascia scampo: il rapporto è favorevole quanto più alto è il dividendo (il valore della produzione) e più basso il divisore (i costi del sistema).
Per quanto ho potuto osservare, nei molti paesi in cui ho operato come consulente tecnico, solo in Svezia ho riscontrato una “produttività diretta” (dei lavoratori) superiore all’Italia. I lavoratori italiani, per preparazione, impegno e, in ultima analisi, produttività sono tra i migliori al mondo. Anche la “produttività globale” delle aziende italiane è competitiva per quanto attiene i fattori che possono controllare autonomamente (produzione, organizzazione, impianti e investimenti) ma è penalizzata dai fattori che non può controllare (costi energetici e di trasporto, infrastrutture, burocrazia, incertezze normative, lungaggini giudiziarie, oneri sociali e fiscali elevati e a volte impropri, …).
Per questo, è la produttività complessiva del “sistema Italia” il vero problema, sul quale né lavoratori né imprenditori possono incidere direttamente. La questione è complessa e la lascio ben volentieri a economisti e politici. Si può però ricordare che, in accordo con la formula data, l’indice di produttività migliora se cresce il valore della produzione. Perché ciò si verifichi, sono necessarie due condizioni: che aumentino i lavoratori e che tra questi sia maggiore il numero dei “diretti-produttivi” e si riducano gli “indiretti” che, pur necessari perché il sistema funzioni correttamente, non aggiungono valore.
In altre parole servono più occupati e tra questi un maggior numero di “aggiuntori di valore” e un minor numero di “incrementatori di costo”. La Francia, per esempio, con una popolazione superiore all’Italia del sette per cento ha un prodotto interno lordo (il citatissimo PIL) superiore al nostro del ventidue per cento. Ciò è dovuto principalmente al maggior tasso di occupazione (64%) rispetto al nostro (57%) e a un miglior utilizzo della stessa, privilegiando le attività che incrementano valore e minimizzando l’incidenza dei servizi - pubblici e privati - mediante un’efficace organizzazione e controllo degli stessi.
Per finire, quando si auspica, una “maggiore produttività” bisognerebbe aggiungere del “sistema Italia” e avere l’accortezza di dire che ciò implica principalmente (quasi esclusivamente, oserei dire) azioni che sono nell’esclusiva facoltà di legislatori e amministratori pubblici. Non lasciar credere che si dovrebbe lavorare di più e meglio nelle aziende private; cosa, per altro, sempre possibile e costantemente ricercata dalle imprese italiane.  

sabato 6 aprile 2013

IL PROBLEMA ITALIANO: COSTI E PRIVILEGI DEL SETTORE PUBBLICO


Determinano, tra l'altro, una contrapposizione tra chi gode di tutte le garanzie e chi è in balia della crisi economica e non vedendo vie d'uscita, decide di farla finita. E' tempo che la politica metta mano per evitare un nuovo scontro di classe.

Alcuni eventi drammatici, è di ieri la notizia del suicidio di quattro persone di cui tre congiunti, devono essere letti anche alla luce della spaccatura in due del paese. In Italia non si contrappongono più proletari e capitalisti (o lavoratori e imprenditori) ma è netta la divisione tra settore privato e settore pubblico. Il primo sta attraversando una crisi senza eguali che evidenzia spesso le difficoltà, tanto dei lavoratori quanto degli imprenditori, sino alle estreme conseguenze del suicidio per disperazione e mancanza di prospettive. Il secondo, costituito da tutti coloro che fanno parte del settore pubblico, è solo marginalmente toccato della crisi: niente perdite di lavoro e stipendio garantito ogni mese.
     Ho sotto gli occhi, la statistica dei suicidi per motivi economici degli ultimi mesi, in tutto 89 persone: 55% imprenditori e artigiani; 31% disoccupati; 8% lavoratori dipendenti; 6% pensionati. Nessuno tra i dirigenti e i dipendenti pubblici, loro sono al riparo dai colpi più tremendi della crisi. Non ci si uccide per qualche anno di lavoro in più, o qualche punto di maggiore tassazione; bensì quando si perde tutto e non si vedono vie d’uscita. In quest’ultima condizione si vengono a trovare solo quanti operano nel settore privato, siano essi lavoratori dipendenti, autonomi o imprenditori.
     Le dinamiche socio-economiche, indotte dalla legislazione nazionale, hanno portato alla formazione di due nuovi raggruppamenti: “la classe degli statali” e la “classe dei privati”. Non siamo ancora alla lotta di classe aperta, ma è evidente che gli interessi delle due parti sono ormai divergenti. Ciò perché le garanzie e i privilegi dell’una non sono compatibili con la precarietà e le pressioni (fiscali, produttive, burocratiche) che sono esercitate sull’altra.
     Il costo dello Stato nel suo complesso è il Problema dell’Italia; unitamente alla bassa produttività dei suoi apparati. La politica, le istituzioni e amministrazioni, gli enti vari, nell’insieme, generano una spesa pubblica che assorbe più della metà della ricchezza prodotta dal Paese e continua a essere superiore alle entrate fiscali, già insostenibili, e quindi alimenta l’esorbitante debito pubblico. Chi può pensare di trovare altre risorse aumentando ancora le tasse o il debito pubblico? Dopo di quello che abbiamo rischiato nei mesi scorsi! L’unica strada percorribile è affrontare il “Problema italiano” su entrambi i fronti: il costo e la produttività della pubblica amministrazione. Le risorse (sprecate) sono lì e nell’evasione fiscale. Non ci s’illuda, però, di risolvere tutto solo con la seconda. Magari per continuare con le spese ingiustificate della politica e con una bassa produttività della pubblica amministrazione.
     Sono tempi, non brevi, in cui i giovani non trovano lavoro, o solamente precario e con paghe da fame, i meno giovani lo perdono, agli anziani sfugge la pensione di anno in anno, le aziende chiudono o si trasferiscono, molti imprenditori e lavoratori non ce la fanno più e la fanno finita. In questi tempi, io mi domando, com’è possibile che una parte, inserita a vario titolo nella sfera pubblica, possa continuare a vivere come niente fosse successo; come se i pretesi diritti che rivendicano, non dovessero essere correlati a quelli degli altri e proporzionati alla situazione generale del Paese?

venerdì 5 aprile 2013

ACCORPARE LE PROVINCE? NON SIATE PROVINCIALI!


Accorpare le Province, per lasciarne in vita poche e grandi, accentuerà la ridondanza e un pernicioso dualismo con le Regioni.


Il problema non è: “Province, sì o no?”. E’ tempo di porsi la domanda: “Quale articolazione amministrativa, come strutturata e con quali compiti, per ciascun livello definito, è in grado di assicurare al meglio, in economia e in modo duraturo, tutti i servizi e le prerogative che sono demandati alle autonomie locali?”.
     La probabilità che tra le soluzioni, al problema posto (e incombente), figuri qualcosa di simile alle attuali Province è inesistente. Basta guardare ai Sistemi amministrativi in essere in molti paesi europei, soprattutto tra i più solidi del centro-nord Europa, per rendersene conto. Accorpare le Province, per lasciarne in vita poche e grandi, accentuerà la ridondanza e un pernicioso dualismo con le Regioni.
     Per l’erogazione di servizi importanti (socio-sanitario, ciclo dell’acqua, ecc) il territorio deve essere suddiviso in ambiti e distretti di dimensione più piccola rispetto alle attuali Province. Pena una differenziazione inaccettabile nella possibilità di fruizione da parte dei cittadini. E’ necessario abolire tutte le Province e prevedere delle “Aggregazioni ottimali”, mediante federazione di Comuni, per l’erogazione dei servizi e lo sviluppo territoriale.

UNA LEGGE ELETTORALE PER ... GLI ELETTORI


     Non per gli interessi dei partiti, dei potentati e dei potenti
Finché saranno i partiti a progettare una legge elettorale non ne avremo mai una a beneficio degli elettori e dei cittadini tutti. Nell’ambito di un’associazione, rigorosamente apartitica, mi è capitato di far parte di un gruppo che si prefiggeva di elaborare dei contributi per una legge elettorale regionale.
     Il gruppo, coordinato da un docente universitario, era formato da persone “non in lizza e non in lista”. Si poteva (e si doveva) elaborare suggerimenti e proposte per una legge nell’esclusivo interesse dei cittadini e della comunità regionale.
     Ebbene, è straordinario rilevare quanto diversi siano l’approccio e gli esiti, ovvero la formulazione delle regole di voto, quando sinceramente (anche se, magari, ingenuamente) si vuole concretizzare la sovranità popolare e portare nelle istituzioni delle persone adeguate (se non le migliori).
     Di certo non avremo una legge accettabile finché i partiti saranno arbitro e giocatori. E’ giusto, quindi, pensare alla costituente (formata da esperti “non in lizza e non in lista”) per le riforme istituzionali a partire da una nuova legge elettorale.

giovedì 4 aprile 2013

PROVINCE, ABOLIRLE NON SOLO PER I RISPARMI


Non sono state in grado di assicurare lo sviluppo del territorio che amministrano. In molti casi ne hanno decretato il declino e lo spopolamento
     Molti evidenziano che le economie ottenibili dalla soppressione delle province saranno meno di quelle ipotizzate perché altri enti dovranno accollarsene le incombenze. Non di meno si stima un risparmio di due miliardi di euro. Cifra tutt’altro che da disdegnare, anche se ottenibile senza stravolgere l’organizzazione degli enti locali.
     In verità il ruolo delle province non è messo in discussione esclusivamente per il dato di spesa a essa attribuibile, ma per l’inidoneità a svolgere un ruolo amministrativo di sviluppo del territorio. Non avendo soppresso le province quando furono istituite le regioni, ci troviamo ora con 5 livelli istituzionali che salgono a 6 con le comunità montane. Troppi.
     Essendo evidente che le città maggiori (capoluoghi) hanno in sé le risorse sufficienti per gestirsi, la provincia avrebbe dovuto essere l’istituzione di supporto al territorio. Al contrario la provincia, incentrata sul capoluogo, ha favorito quasi esclusivamente lo sviluppo di quest’ultimo. Chi ne dubitasse guardi gli andamenti demografici, sociali ed economici dei capoluoghi e dei rispettivi territori, degli ultimi decenni.

POCHI RISPARMI, MA PIU' SVILUPPO PER TUTTI


Si atterrano con l’abolizione delle province e un sistema amministrativo basato sull'aggregazione paritaria dei comuni. Come negli stati federali europei. 

Se si osservano gli andamenti demografici di città e borghi d’Italia, si nota il maggior incremento dei capoluoghi, di regione e di provincia, un minore incremento della città non capoluogo, una stagnazione e spesso un decremento di cittadine e borghi. La gente si è progressivamente spostata nei capoluoghi dove, in ragione dell’articolazione amministrativa, sono state concentrate le risorse. Siamo passati dal policentrismo che ha fatto grande e bella l’Italia al “pluricentralismo” (statale, regionale, provinciale).
     La stessa cosa non è avvenuta in molti degli Stati che ci attorniano, per esempio in Svizzera, Germania e Austria. Non è certo un caso che in queste nazioni non esista un ente intermedio simile alle nostre province incentrate sulla città capoluogo, a partire dalla denominazione. Città e territorio hanno problematiche ed esigenze affatto simili che vanno trattate in modo e con mentalità diverse.
     Per questo, nelle nazioni citate, l’istituzione intermedia, tra comune e regione (land, cantone) è costituita da un’associazione di comuni compatta e omogenea e vi è la separazione amministrativa tra città e territorio: meno capoluoghi e più equità per tutti i cittadini.

mercoledì 3 aprile 2013

POLITICA MALATA, LE COLPE DEI CITTADINI E DEI MEDIA


E’vero che i cittadini sono corresponsabili, ma c’è chi avrebbe potuto fare di più per la crescita della società, delle istituzioni, della democrazia

Il Vescovo di Pordenone ci ricorda che noi tutti, cittadini-elettori, siamo corresponsabili del degrado politico-istituzionale, che la politica è lo specchio della società, che ci meritiamo i governati e gli amministratori che ci siamo scelti. Tutti peccatori, dunque, e nessuno condannabile più degli altri, alla fine. Anche perché molti avrebbero taciuto perché cointeressati all’andazzo generale.
     In parte è vero, ma solo in parte; non credo proprio che tra la gente comune, i lavoratori, i pensionati, i giovani disoccupati-precari-sottopagati, il degrado sia ai livelli che emerge dai palazzi della politica. E non tutti hanno taciuto, basterebbe scorrere le lettere pubblicate sui giornali per vedere che gli e-lettori vanno segnalando da anni lo scempio che si è fatto della cosa pubblica. Solo che il grido di dolore, pur alto e circostanziato, non è stato raccolto. Per nulla dai politici e poco anche dai … media.
     La predica mediatica del Vescovo di Pordenone e l’attenzione che la stampa gli ha riservato, fanno tornare alla mente un problema non nuovo. Soprattutto il rincarare la dose, l’enfatizzazione delle supposte carenze e connivenze dei cittadini, messe in risalto dai giornali, fanno pensare al loro stesso ruolo. A quello che hanno fatto, a quello che avrebbero potuto e dovuto fare e non hanno fatto. Che è molto, ma molto, ma molto di più di quello che possono fare i cittadini. 
     Anche se è passato il tempo in cui “non si poteva governare senza l’assenso di via Solferino” il sistema dei media (tradizionali e innovativi) è fondamentale per lo sviluppo della società, delle istituzioni, della democrazia. I media, possono e devono censurare le manchevolezze dei politici e ricordare la corresponsabilità della popolazione che li esprime, ma non possono chiamarsi fuori! Se qualcosa non ha funzionato, se ci sono state delle derive, chi più di loro avrebbe potuto e dovuto segnalarle per tempo, con determinazione e perseveranza e con ciò concorrere ad arginarle?
     I media hanno a disposizione tre strumenti fondamentali per perseguire lo scopo: primo “l’informazione”, secondo “l’informazione”, terzo “l’informazione”. A tal fine sui laptop e i tablet dei giornalisti dovrebbe comparire un banner che ricordi loro perché scrivono, semplicemente e solo: “docere, movere, delectare”, anche nell’era dell’informatica.      Infatti, alcuni dei motivi per cui fatichiamo a uscire dal pantano sono strettamente connessi all’informazione. Faccio qualche esempio, ma ve ne sarebbero molti altri.
     Le opinioni sono sacre e vanno riportate come espresse dai vari soggetti. Tuttavia, molti politici e uomini pubblici supportano le loro, i progetti, le pretese e quant’altro, con dati, fatti ed elementi non veri, a volte smaccatamente falsi e fuorvianti. Tutto ciò è spesso riportato dai media senza segnalare le inesattezze, le carenze, le omissioni che inficiano il ragionamento, inducendo spesso in errore il lettore stesso. Il vizio potrebbe essere estirpato in buona parte se, salve le libere opinioni, i fatti travisati fossero sistematicamente segnalati.
     Le dichiarazioni, le interviste, i programmi elettorali ed anche i commenti giornalistici sono pieni di “generiche buone intenzioni”. Un esempio classico: “Bisogna dare spazio al merito; puntare sulla meritocrazia”. Non uno che vada oltre, nello specifico e dica o scriva, per esempio: “I concorsi pubblici devono uniformarsi a regole precise ed essere verificati prima del bando, eliminando tutte le clausole che prefigurano il vincitore, non in base ai requisiti necessari per svolgere la mansione”. O anche: “La commissione giudicatrice deve, obbligatoriamente, comprendere anche un portatore d’interesse alla selezione del candidato più idoneo”. Che, per capirsi, sarà un rappresentante dei pazienti per selezionare un medico e uno dei discenti per selezionare un docente.
     Quando si trattano i ricorrenti temi fondamentali per lo sviluppo delle istituzioni, per esempio la legge elettorale o la riforma delle autonomie locali, sarebbe molto più utile presentare ai lettori lo stato dell’arte in giro per il mondo che non le dichiarazioni pleonastiche della gran parte dei nostri politici. Se gli e-lettori fossero stati correttamente e costantemente informati sui vari sistemi elettorali in essere negli stati, io credo che, persino molti degli iscritti ai partiti che hanno partorito e tenuto in vita il “porcellum” avrebbero richiesto e preteso qualcosa di meglio. Non parliamo poi del “Sistema Regione-autonomie locali” che, a leggere i giornali, pare non ne esistano in giro per il mondo e tutti si affannano a inventarne di improbabili. Perché, chiedo, non rendere edotti i cittadini di come sono strutturati i sistemi amministrativi intorno a noi?