Su quanti livelli istituzionali dovrà essere riorganizzato lo Stato?
Come saranno strutturati gli enti intermedi? E quali le loro funzioni?
Prima di rispondere sarà meglio studiare le soluzioni adottate in Europa.
In “Perché l’autonomia della Provincia” - su Autonomie,
n. 10/2007, Centro Studi Friulani, Udine - con la conoscenza e la competenza
dell’uomo di legge, Marcello Perna, autonomista triestino, evidenzia il solco
che si è creato in Italia tra il “paese legale” e quello “reale” e il venir
meno del rapporto fiduciario tra politica e cittadini. Egli ricorda che le
riforme strutturali che oggi si impongono sono principalmente di un triplice
ordine: “Riduzione delle tasse e riordino del sistema fiscale; rilancio delle
intere possibilità economiche nazionali; revisione dell’apparato burocratico e
dei servizi pubblici”. La radice del “problema italiano” è correttamente individuata
nel centralismo dello Stato, nel non sufficiente decentramento e nella mancata
autonomia delle istituzioni territoriali. Questo tipo di analisi, e la prognosi
che ne consegue, travalicano finalmente gli ambienti autonomisti e diventano
elemento di dibattito in fasce sempre più ampie della società, in attesa che la
politica se ne occupi concretamente. Nessuno s’illude più che la “questione
italiana” si possa risolvere con un’“ordinaria amministrazione” entro il quadro
normativo attuale. Sono necessari cambiamenti strutturali, è urgente una forte
e diretta responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti portando gli ambiti
normativo, amministrativo, di spesa e di controllo, al più basso livello
possibile, vicino al cittadino e al contribuente.
Perna ricorda come l’art.5 della
Costituzione, inerente allo sviluppo delle autonomie locali e il decentramento
dei servizi che dipendono dallo Stato, sia rimasto in buona parte inapplicato e
auspica l’innovazione necessaria per “raggiungere un nuovo equilibrio dinamico
nella distribuzione dei poteri tra centro e periferia”. Auspicio che è la
ragion d’essere e la base dell’azione del movimento autonomista. Tuttavia, a
quasi sessant’anni dalla promulgazione della Costituzione è lecito domandarsi se,
allo stato attuale e nelle prospettive future, si possa confidare in una
tardiva applicazione per risolvere le questioni inerenti, o se invece non sia
venuto il tempo di por mano, con le dovute procedure, alla Costituzione stessa.
Poiché, né la quarantennale “prima Repubblica”, né la “seconda” è riuscita a
scalfire il centralismo e ad avviarci a una qualche forma, più o meno spinta,
di federalismo.
Già, lo Stato federale: questo è il punto,
il vulnus della nostra Costituzione. Non ce ne vogliano i “Padri”, a partire da
Oscar Luigi Scalfaro strenuo difensore della Carta, sappiamo bene che in essa
vi è tanto di eccellente, ma questa mancata previsione è alla base del
“problema italiano”. Se c’é uno Stato che, in ragione della sua storia,
geografia, economia, cultura, lingue, doveva, e deve, essere una federazione,
questi è l’Italia. Si può comprendere che, essendosi compiuta l’unità da parte
di una monarchia, allora la questione non si poneva nemmeno, ma all’avvento
della Repubblica, questa doveva essere federale. Come la Germania e l’Austria che
uscivano disastrati dalla guerra al pari dell’Italia. La mera applicazione del
vigente art. 5 della Costituzione poteva andar bene per il decentramento sul
territorio dei poteri e servizi dello Stato, ma si rileverà del tutto
inadeguato per un’autentica autonomia delle frazioni territoriali di primo
livello che lo compongono. Con l’autonomia (vera) molte competenze e funzioni
sono esclusiva delle istituzioni locali e ivi allocate di diritto, non
decentrate. Allo Stato centrale rimangono solo le competenze che, per economia
di scala ed esigenze di uniformità, è bene lasciare in capo allo stesso ed,
esclusivamente per queste, è da prevedersi il decentramento, quando riguardano
l’intera popolazione e tutto il territorio nazionale. Solo una riforma in senso
federale dello Stato è in grado di assicurare l’autonomia necessaria per
arrestare la deriva che ci allontana dall’Europa e dal novero dei paesi ad alto
tasso di sviluppo, civile ed economico.
Per quanto attiene alle
ripartizioni/istituzioni territoriali, Perna osserva che: “Il Comune
costituisce un lembo di territorio troppo piccolo per porsi a presidio di
peculiari interessi o elaborare strategie politico-economiche significative,
mentre la Regione
è un’espressione politico geografica corrispondente a un concetto troppo vasto,
e per sua natura in realtà ambiguo, inadatto a offrire affidamento a tutte le
collettività locali che la compongono…”. Per quanto sopra, egli individua nella
Provincia il livello territoriale ottimale, l’istituzione da rendere autonoma:
“Il centro della vita pubblica, politica ed economica…”. Sul Comune siamo
pienamente d’accordo: sono troppo piccoli, non solo per elaborare strategie
politico-economiche, ma anche per l’erogazione dei servizi cui sono preposti.
Per le Province, però, si può osservare che mantengono buona parte dei limiti
attribuiti alle Regioni: sono esse stesse un’espressione politico geografica
non omogenea. La provincia di Pordenone, per esempio, soffre tuttora della
tripartizione storica: area friulanofona, area venetofona e capoluogo che non è
mai stato riferimento per nessuna delle prime due. Il tutto è perpetuato e
attualizzato da uno sviluppo differenziato che, non per caso, ricalca la
divisione in tre del Friuli occidentale. Lo stesso è per la provincia di
Gorizia. E per quella di Udine l’articolazione, in circoscrizioni con un
sufficiente livello di omogeneità, è anche maggiore. Non diversa è la
situazione nella gran parte delle province italiane. Osta ancor più a un rinnovato
e maggior ruolo delle Province il fatto che l’effettiva autonomia, grande o
piccola, si ha con il potere legislativo che tanto l’Italia, quanto l’UE,
riconoscono al livello regionale. Certo, tutto si può modificare, ma la
dimensione delle Province italiane non sono sufficienti per far loro assumere
questo ruolo.
Per i motivi detti la sorte della
Provincia appare segnata, nonostante la strenua difesa da parte di non
marginali frange politiche e sociali che già hanno avviato una capillare azione
di lobbying. Non vi è più ragione di avere cinque istituzioni elettive
principali: Comune, Provincia, Regione, Stato, UE. Imprescindibili esigenze di
efficacia ed economia di erogazione dei servizi, impongono una riorganizzazione
su quattro livelli che in Italia avrebbero già dovuto esserci. Non fosse che,
approvato quello nuovo –la
Regione- non si è soppresso quello precedente –la Provincia- che era
funzionale alla gestione del territorio da parte dello Stato centralista, ma
non può costituire la base per una riorganizzazione dello Stato in senso
federalista, quale che sia il grado di autonomia e le competenze da lasciare in
capo alle “unità federate”.
Per disegnare l’articolazione delle
autonomie locali, poi, non si potrà derogare a due principi guida tesi, il
primo ad assicurare a tutti i cittadini, l’erogazione dei servizi al massimo
livello qualitativo e al minor costo possibile, e il secondo a garantire la più
ampia e diretta partecipazione alla gestione della cosa pubblica, entro livelli
istituzionali condivisi, di cui il cittadino si senta parte costituente, ovvero
comunità. Raccogliendo a fattor comune i diversi elementi si vede come
l’Istituzione autonoma e intermedia, dotata di potere legislativo, in Italia e
in Europa, non possa che essere la Regione. Per quanto attiene la partizione interna
alla stessa, riconosciuti troppo piccoli i Comuni attuali, troppo grandi, non
omogenee e non rappresentative di comunità univoche le Province e accertata la
necessità/fattibilità della riduzione dei livelli amministrativi, bisogna
individuare una partizione/istituzione territoriale che si sostituisca a
entrambe rispettando il senso di appartenenza della popolazione e le
imprescindibili esigenze di efficacia ed efficienza. Per il nome non c’è che
l’imbarazzo della scelta, potrà chiamarsi Comunità, Comprensorio, Distretto,
Supercomune o altro ancora. Per quanto riguarda invece la sostanza, ovvero il
dimensionamento, l’individuazione, e perimetrazione -salvo aggiustamenti, da
lasciare all’autodeterminazione democratica- la storia ci consegna pronti e
condivisi questi aggregati territoriali, cementati da vicende secolari: i
Mandamenti. Intesi ovviamente come circoscrizioni intermedie, tra comuni e
circondari, ovvero come aggregazione di municipi di un territorio e di una
popolazione sufficientemente omogenei. Tutti gli abitanti dei comuni facenti
parte, anche se attualmente non vi sono vincoli istituzionali, riconoscono il
ruolo preminente del centro mandamentale, se ne sentono parte e nessuno, più di
questo, conosce e condivide le sorti del territorio afferente. Ecco che,
federando i Comuni del Mandamento, si può ottenere quel Supercomune (che per
altro verso è il “Minimo Comune Necessario”) indispensabile per un’efficace
riforma delle autonomie locali e di cui, per altro, sono già provate
l’esistenza e la bontà, si veda in Austria. Ove vi sono le condizioni, il
“Supercomune” potrà avere anche un’estensione maggiore, sino a quella che era
il Circondario. Le previste “Città metropolitane” in fondo ricalcano la logica
del Circondario che era ed è l’ambito territoriale di gravitazione di una
città.
Non è questa la sede per scendere nei
dettagli ma si può intanto assicurare che tutti i Municipi resteranno aperti,
operativi e, anzi con un maggior ventaglio di servizi, in quanto un ristretto
numero di operatori qualificati, mediante postazioni connesse ai server del
Supercomune, della Regione e, perché no, di alcune amministrazioni dello Stato,
potranno evadere pratiche e rilasciare documenti che, attualmente, il cittadino
deve rincorrere in sedi remote. A firmare sarà il Sindaco che, nei paesi più
piccoli, potrà essere anche il solo eletto e che, assieme ai rappresentanti
degli altri Comuni andrà a formare il Consiglio intercomunale strutturato nelle
forme e con le figure necessarie: presidente, assessori, consiglieri. Nel
complesso il Consiglio e la
Giunta del “Supercomune”, pur assicurando la rappresentanza
di tutti i Municipi federati, non supereranno numericamente quelli attuali del
più grande di essi. E’ superfluo rilevare che un’adeguata individuazione dei
Supercomuni, rispettosa anche dei vincoli orografici, permette la soppressione
dell’ente di secondo livello Comunità montana, senza nulla togliere, anzi
liberando risorse da investire in loco da parte dei Supercomuni di montagna.
Concludendo è interesse generale
dell’Italia attuare una riforma in senso federalista dello Stato e, in ogni
caso, riconoscere la più ampia autonomia alle partizioni di primo livello
individuate nelle Regioni. Lo è in particolar modo per il Sud, perché il
centralismo ha danneggiato principalmente quella parte del Paese e solo
responsabilizzando le popolazioni e le amministrazioni locali è possibile un
riscatto. E’ necessario completare la riforma regionalista togliendo dalla Costituzione
il vincolo sulle Province e riconoscendo alle singole Regioni la potestà di
riorganizzare le autonomie locali. Tra l’altro l’abolizione delle Province
consentirà un più razionale e capillare decentramento dei servizi (auspicabilmente
pochi) che rimarranno di esclusiva pertinenza dello Stato, andando a collocarli
anche nei medi centri e non più solo nelle città ex capoluoghi di Provincia. A
quel punto le Regioni, dotate di autonomia legislativa in alcune materie,
riorganizzeranno la propria articolazione amministrativa su due livelli: il
proprio, con funzioni di alta programmazione, coordinamento generale e
controllo, oltre a poche competenze dirette di area vasta, e i “Supercomuni”,
equiordinati e quindi a loro volta dotati di specifica autonomia, che
diventeranno i principali, più prossimi e quindi più efficaci, erogatori di
servizi ai cittadini.
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