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domenica 15 dicembre 2013

LO SPOPOLAMENTO DELLA MONTAGNA

Qualche dato e due confronti su cui riflettere

I casi di Vito D’Asio e Forgaria nel Friuli

Tempo addietro, per un piccolo studio su certi fenomeni socio-economici avvenuti in meno di cento anni nello Spilimberghese nel Friuli occidentale, ho ritenuto necessario rintracciare gli andamenti demografici di alcuni comuni del Mandamento. Tra questi, in rappresentanza della Pedemontana, figurava il grafico del Comune di Vito d’Asio, senza neanche specificarlo, in quanto gli altri (Pinzano, Castelnovo, Tramonti) hanno quasi lo stesso andamento. Né sorte migliore è toccata alle altre comunità del Friuli occidentale, insediate nelle valli Colvera, Cellina, Vajont: declino inesorabile per tutti dagli anni Trenta del secolo scorso e poi accentuatasi dai Settanta. Il grafico riportato non ha bisogno di molti commenti. Vito d’Asio ha sfiorato i 4.000 abitanti al censimento del 1921 mentre al momento del censimento 2011sono stati rilevati 818 abitanti.


                       Evoluzione demografica del Comune di Vito d’Asio – PN


In seguito volli andare a vedere cosa era successo nella restante montagna friulana, in provincia di Udine. Anche lì, purtroppo, si osservano cali demografici vertiginosi, soprattutto nei comuni più in quota e delle valli minori, ma non sempre della stessa intensità registrata a Vito. Per la Val d’Arzino, può essere molto interessante il confronto con i vicini che hanno scelto di restare in provincia di Udine. Il comune di Forgaria aveva nel 1921 pressappoco gli stessi abitanti di Vito, ma all’ultimo censimento ne registra più del doppio. Si osserva poi che dagli anni settanta la popolazione è quasi stabilizzata. Mentre, l’altra sponda – approdata in provincia di Pordenone al momento della costituzione nel 1968 – frana rovinosamente. Perché?


                         Evoluzione demografica del Comune di Forgaria – UD


Confronto con i comuni del Trentino e dell’Alto Adige
  
Qualche tempo dopo, per uno studio a più largo raggio, mi trovavo ad analizzare l’organizzazione delle Autonomie locali presenti nelle province di Trento e Bolzano. Mi venne allora l’idea di ricercare gli stessi “demografici” riferiti ai comuni di quelle province per una comparazione con quelli della montagna friulana, dei quali i due riportati sono esemplificativi. Ovviamente, per una comparazione omogenea bisogna escludere i comuni (e le intere valli) miracolate da “madre natura e dallo zio turismo”. Bisogna tralasciare le “perle”, come Canazei – Ortisei – Merano - Madonna di Campiglio e quante altre, per ricercare i comuni sperduti e sconosciuti a economia montana, non turistica. Per esempio porto l’andamento demografico di due di questi comuni, di dimensioni paragonabili a quelli della Val d’Arzino, prima del declino.


                              Evoluzione demografica del Comune di Tione
                                  Comunità di Valle delle Giudicarie - TN



                               Evoluzione demografica del Comune di Laces
                             Comunità Comprensoriale della Val Venosta – BZ


Posso assicurare, e del resto si può verificare facilmente, che gli esempi sopra riportati sono probanti. La gran parte dei comuni, tutti di montagna, del Trentino – Alto Adige/Südtirol hanno avuto degli incrementi demografici, alcuni sono rimasti stabili, pochissimi hanno avuto una flessione, nessuno della gravità che registra la quasi totalità dei comuni montani friulani.


Qualche riflessione sulla riforma delle autonomie locali, urgente e necessaria
per tutto il territorio e, sopratutto, per la montagna

I dati di cui sopra dovranno portare, prima o poi, a una riflessione sulle scelte di fondo dell’organizzazione e della gestione delle Autonomie locali nelle regioni a statuto ordinario e anche nella Regione (poco) Autonoma Friuli Venezia Giulia. Nella valle d’Aosta, buon per loro e non per caso, la situazione è molto simile a quella di Trentino e Alto Adige. Per ora, e in questa sede, fermiamoci qui e concentriamo l’attenzione su quanto di positivo ci dice l’esperienza trentina-altoatesina (e austriaca e tedesca e svizzera): non sono ineludibili il declino e lo spopolamento, in montagna si può vivere, anche nel terzo millennio, anche dove “non nevica a colori”, per dirla con Mauro Corona. Per questo bisogna creare e mantenere le condizioni, guardando dove questo risultato è già stato conseguito e adattando, alle altre realtà, le strutture e le procedure amministrative che lo rendono possibile. Non serve andare molto lontano, gli esempi concreti sono qui intorno a noi, fuori e dentro l’Italia. Attenzione, però, dopo il fallimento delle ultime riforme e i continui rinvii, non si può e non si deve sbagliare ancora. Per evitare questo rischio non si deve improvvisare; bisogna adottare, adattandolo, un modello sperimentato e verificabile da tutti.






venerdì 29 novembre 2013

LA VALIGIA DI PELLE - Osservazioni di un tecnico che ha potuto guardare oltre il cortile

Presentazione del libro

Ubaldo Muzzatti
La valigia di pelle
In viaggio al tempo della globalizzazione: osservazioni, incontri e confronti 
di un lavoratore italiano all’estero

“La 24 ore di pelle. E’ ancora in ufficio sotto il tavolo, come la lasciai al rientro dopo l’ultima trasferta. Dentro ci sono ancora gli strumenti di misura e di calcolo, il notes, le penne, il vocabolario tascabile...
     Aprendola, però, mi tornano pochi elementi tecnici e mi sembra lontano il tempo in cui ero un esperto di know-how, addetto al trasferimento della tecnologia in giro per il mondo.
      Piuttosto, dalla valigetta di pelle che mi regalarono i colleghi quando li lasciai per cambiare lavoro, emergono i volti delle persone incontrate, le loro voci, i discorsi che facevamo per conoscerci, per sapere qualcosa dei rispettivi paesi, dei modi di lavorare e del vivere fuori dalla fabbrica.
     Rivedo il treno a vapore della Cina; il saloon di Fort Worth, dove sostò Butch Cassidy in fuga dopo l’ultima rapina; l’auto in panne nella sterminata pianura Ucraina … e non passava nessuno.
   Ricordo le barzellette che ci raccontava in italiano l’interprete russa; il canto melodioso di quella cinese che non conosceva i Beatles…”.   

E’ un libro di racconti, o meglio di osservazioni, incontri, confronti, fatti durante le trasferte di lavoro. Un “giro del mondo” che tocca alcuni dei paesi in cui ho lavorato come esperto di tecnologia e di organizzazione industriale. Il mio ruolo, nel gruppo per il trasferimento del know-how, era la formazione del personale. Per questo passavo le giornate lavorative a stretto contatto con i tecnici locali; per parlare di lavoro, certamente, ma anche di altro. Tutto il tempo libero lo passavo a visitare i luoghi che ci ospitavano, a immergermi nelle loro realtà e nella cultura locale.
Nella Valigia sono riportate le osservazioni raccolte negli Stati Uniti d’America, in Cina, Russia, Ucraina, Romania, Grecia, Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Finlandia, Germania. Chiude il libro, una piccola anteprima (due incontri) dell’esperienza di lavoro in Italia e le osservazioni di un tecnico, rispetto a due temi di attualità in Italia, rapportati a quanto notato all’estero.
  
Dalla postfazione di Bruno Tellia 
professore di sociologia industriale all’Università di Udine:

“Ubaldo Muzzatti, addetto al trasferimento di tecnologia, appartiene alla categoria di chi approfitta del lavoro per curiosare fra altre culture, altra gente, altri modi di vita. E appunta quello che lo colpisce e la reazione che provoca in lui, i frammenti in cui si imbatte e che diligentemente raccoglie. Alcuni di tali appunti e frammenti sono ora raccolti in questo libro.
        E’ narrazione di esperienze vissute, raccolta di impressioni lasciate da ogni viaggio, offerta a chi nel viaggio, sia esso per lavoro o per altre ragioni, cerca di arricchirsi assorbendo, certamente non in modo acritico, quanto ogni ambiente può offrire.”

Struttura del libro:

-Antefatti (introduzione dell’autore)
-Osservazioni, incontri, confronti: in America, in Cina, nelle Russie (Russia e Ucraina), in Europa (Romania, Grecia, Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Finlandia, Germania)
-Anteprima: in Italia: “Un friulano a Firenze”; in Friuli “L’accordatore russo
-Appendice: osservazioni di un tecnico  “Sulla produttività”; “Sull’organizzazione e gestione del territorio”
-Postfazione di Bruno Tellia

LA VALIGIA DI PELLE si può consultare e acquistare sul sito:  http://ilmiolibro.kataweb.it/

O sul sito:  http://www.lafeltrinelli.it/   o nelle Librerie Feltrinelli in tutta Italia

lunedì 11 novembre 2013

LA LEZIONE DI PAPA FRANCESCO ALLA POLITICA ITALIANA

Si è presentato come vescovo di Roma (primus inter pares). Intende superare la visione “Vaticano-centrica” della Curia. Si avvale di “collegi consulenziali” per riformare la Chiesa. Lascerà che le Conferenze Episcopali eleggano autonomamente i presidenti, rinunciando al potere di nomina.
Con i primi atti e le dichiarazioni, Papa Francesco prefigura, per la complessa articolazione della Chiesa Cattolica, una gestione meno centralistica e più collegiale, con maggiore autonomia per le Chiese locali.
In questo si discosta molto dalle recenti tendenze politiche italiane che perseguono un ritorno al centralismo e la riduzione degli spazi di autonomia e autogoverno delle comunità locali.

Certamente il Papa si cura d’altro, non entra direttamente nelle questioni politiche italiane o di altri paesi ed è Lui stesso a chiarirlo. Non di meno osservando i suoi atti e ascoltando le sue dichiarazioni balza agli occhi il suo orientamento su alcuni criteri di governo di una grande organizzazione, come la Chiesa Cattolica e come gli Stati sovrani. Criteri che riguardano l’articolazione dell’organizzazione stessa; l’equiordinamento dei livelli istituiti, l’accentramento o il decentramento delle competenze e dei servizi; l’autonomia delle istituzioni periferiche.
Nelle parole e nei gesti di Papa Francesco si colgono innanzitutto gli aspetti religiosi, etici, umani. Questo è l’aspetto preminente che tutti apprezzano, credenti e non credenti. Al contempo non possono sfuggire, e non dovremmo tralasciare, quei passaggi, nemmeno tanto impliciti, che trovano un parallelo nelle vicende pubbliche. E che, relativamente, agli orientamenti della politica italiana corrente denotano una certa distanza rispetto alle posizioni espresse. In particolare stupisce e preoccupa che, con i provvedimenti adottati dagli ultimi governi, le istituzioni italiane stiano prendendo la direzione opposta a quella che Papa Francesco vuole percorre con e per la Chiesa cattolica.
Nel presentarsi al mondo il Papa ha voluto sottolineare il suo essere Vescovo, seppure della diocesi di Roma. Con questo ha ricordato a tutti che la chiesa, “una”, è formata da tante unità equiordinate e di pari dignità. Una visione che, traslata nelle istituzioni laiche, possiamo definire federale, che prende le distanze dal monolitismo centralistico.
Nell’incontro con Eugenio Scalfari il Papa ha fatto capire di non condividere una Curia romana troppo “Vaticano-centrica” e che la Chiesa è, e deve essere, la comunità delle parrocchie e delle diocesi. E’ un chiaro riconoscimento alla dignità e autonomia delle comunità locali. In altra occasione ha dichiarato di voler rinunciare al diritto di nomina del presidente della CEI, lasciando che i vescovi vi provvedano con un’elezione. Un chiaro richiamo al valore dell’autonomia delle articolazioni che costituiscono l’insieme.
 Senza entrare nel merito (preminente e di grandissimo rilievo) delle questioni religiose si possono cogliere nelle parole e negli atti di Papa Francesco degli elementi che, traslati nella realtà politica e istituzionale italiana, ne evidenziano la distanza. Negli ultimi tempi i politici italiani hanno intrapreso una strada neocentralistica e di riduzione dell’autonomia delle articolazioni periferiche dello Stato che la Costituzione vuole, invece, equiordinati. Per il bene degli italiani, dobbiamo augurarci che la “lezione politica” (indiretta, ovviamente) di Papa Francesco sia ascoltata, compresa e attuata in Italia. A questo proposito sarebbe utile sapere quanti dei politici di tutti gli schieramenti che plaudono al nuovo corso Vaticano, hanno colto l’aspetto che più dovrebbe interessare loro, quello della riforma delle istituzioni per renderle più democratiche, partecipate e vicine ai cittadini.

                                                                                              umuzzatti@gmail.com

martedì 1 ottobre 2013

ABOLIZIONE DELLE PROVINCE, O RIFORMA DELLE AUTONOMIE?

Sono fuorvianti i dibattiti e i tentativi che si susseguono per l’abolizione delle Province
In realtà bisogna ridisegnare il Sistema delle Autonomie locali
Procedendo con metodo
Dopo aver provato che l’articolazione attuale non è in grado di soddisfare le esigenze future

Come si fa a stabilire se l’articolazione attuale del sistema Regione–Autonomie locali è ancora valida e, quindi, da mantenere con soli adattamenti che non mettano in discussione gli enti che conosciamo: Comuni, Province, Regioni? E, ove non lo fosse, come si può (e si deve) procedere per la necessaria riforma? Come si potrà riconoscere validità (o meno) alle tante inevitabili proposte che saranno (come già sono) presentate? E, infine, come si misurerà l’adeguatezza del progetto che sarà tradotto in legge?
     Il solo modo razionale, per rispondere alle domande, è di fissare, dopo il necessario ampio confronto, i requisiti del progetto. Ovvero di stabilire quali esigenze (e sono molte) dovrà soddisfare in futuro il sistema di cui trattasi. Espressi in modo formale e misurabile tutti i requisiti, per il futuro, questi permetteranno di verificare in che misura il sistema attuale, li soddisfa o no.
     Solo se questa articolazione si dimostrerà pienamente rispondente alle esigenze future, si potrà mantenere. In caso contrario bisognerà avviare il progetto di riforma, strettamente guidato dai predetti requisiti. Perché la progettazione, anche legislativa, è “l’insieme delle attività che trasformano le esigenze e i requisiti concordati nel sistema che li soddisfa”.
     Infine i requisiti di progetto, formalizzati e resi pubblici, consentiranno di verificare l’adeguatezza della legge di riforma, che sarà tanto maggiore quanto più soddisferà tutte le esigenze future del sistema regione-autonomie locali.
                                                                                                         umuzzatti@gmail.com
  

                                                                                                                                                                                 

mercoledì 26 giugno 2013

PROFILI METODOLOGICI PER LA PROGETTAZIONE LEGISLATIVA

Progetti e progettisti, di beni, servizi e norme, più analogie di quanto si possa (o voglia) credere

Giustamente le prime bozze di una norma, e i successivi elaborati sino al momento della definitiva approvazione, sono definiti “progetti di legge” o “disegni di legge”. Non si progettano solo i beni materiali (automobili, elettrodomestici, case, …), ma anche i beni immateriali e i servizi (una polizza, un pacchetto vacanze, un fondo d’investimento, …) e, sicuramente, anche le norme e prescrizioni (emesse da enti pubblici o privati) e le leggi, che nel nostro ordinamento sono riservate al livello statale e regionale.

Nella sua stesura finale, il progetto è l’elaborato (o insieme di elaborati) che descrive e definisce in maniera appropriata, esaustiva, comprensibile e univoca le caratteristiche costitutive e realizzative dell’oggetto. La definizione è valida tanto per un bene, quanto per un servizio o una norma. Cambieranno, secondo i casi, gli elaborati (disegno tecnico per un particolare meccanico, schema unifilare per un impianto elettrico, modulo di sottoscrizione per una polizza, …) e su questi le modalità che descrivono e definiscono l’oggetto (dimensioni, misure, qualità, descrizioni, prescrizioni, …). Una differenza, che non inficia lo scopo e l’assunto della presente trattazione, è costituita dal fatto che il progetto approvato (si definisce così anche in ambito tecnico) di un bene e di un servizio prefigura gli stessi (ovvero come saranno quando fabbricati o erogati) mentre nel caso di una norma e di una legge con l’approvazione definitiva (e successiva promulgazione) il progetto diventa tal quale il “prodotto”.

Delle statistiche, più volte ripetute, hanno evidenziato che, dato un prodotto (o un servizio) e fatto 100 le probabilità o, meglio, le ragioni di successo, queste risiedono per il settanta per cento nella “bontà” del progetto. I processi di produzione, promozione, commercializzazione e assistenza pesano complessivamente solo per il 30 per cento. Ciò perché un “buon progetto” definisce “tutto” (materiali, dimensioni, prestazioni, qualità, costi, …, sulla base d’input commerciali (livello di servizio, di qualità, di prezzo, target, …) e industriali (tecnologie produttive, conoscenze e competenze disponibili, lay-out operativi, …). In definitiva per un prodotto di successo serve un progetto ottimo.

A maggior ragione, è indispensabile un progetto ottimo quando questi, nella sua versione definitiva, diviene il prodotto stesso, senza ulteriori processi di trasformazione. Ed è questo il caso, come si è visto, dei progetti di legge che, una volta approvati dall’organo preposto, diventano la legge stessa. Si potrebbe obiettare che l’effettiva applicazione della legge avviene, molto spesso, in base a un regolamento di attuazione emanato in seguito. E’ di tutta evidenza che il “progetto completo” che definisce in “maniera appropriata, esaustiva, comprensibile e univoca” l’oggetto della norma è costituito dal binomio “legge–regolamento attuativo”. Resta quindi immutata l’esigenza di elaborare, con passaggi di affinamento successivi (è normale), progetti ottimi per i quali sono indispensabili:

-progettisti motivati e qualificati;
-procedure e metodi di lavoro appropriati.

Riferendosi alle leggi i “progettisti titolari” sono, ovviamente, i parlamentari e i consiglieri regionali, per i due livelli legislativi presenti in Italia. Sono loro, normalmente, che presentano i disegni di legge in forma singola, o di gruppo. Sono poi loro a discutere, integrare, modificare e infine approvare le leggi, in commissioni ristrette e in assemblea plenaria. In questo senso essi sono i “progettisti responsabili” anche quando, come normalmente avviene, parte del progetto, e dei passaggi propedeutici allo stesso, è curato da tecnici e funzionari interni alle istituzioni o esperti e consulenti incaricati o, anche, soggetti esterni, tali – per esempio – sono i partiti. In quale misura i “progettisti titolari e responsabili” sono anche “motivati e qualificati” per il delicatissimo incarico di legislatore? Sarebbe fuorviante tentare una risposta in questa sede e anche in altre: il rischio di personalizzazioni, sotto e sovra valutazioni, sulla base di elementi parziali è troppo elevato. Meglio limitarsi a qualche riflessione che, per altro, è raramente proposta. Eppure appare necessaria:

-Anche se non tutti i legislatori partecipano direttamente alla stesura delle leggi, anche se essi si giovano (giustamente) di esperti, non di meno tutti dovrebbero avere in nuce, se non tutte, almeno parte delle abilità, naturali o acquisite, di un buon progettista, a partire dalla capacità di lettura (in profondità) dei progetti elaborati da altri e di incidervi.

-Il sistema attuale di selezione della classe politico-amministrativa non porta a una sufficiente distinzione tra ruoli legislativi, esecutivi e amministrativi. Si mandano nelle istituzioni elettive dei “politici”, senza badare al ruolo che assumeranno. Ma sono ben diverse le conoscenze, le competenze, le abilità, che devono avere un legislatore (regionale o statale) e un amministratore (assessore, sindaco, presidente di regione o provincia, ministro). Legiferare e amministrare non sono, esattamente, la stessa cosa.

Della progettazione in generale e in ambito legislativo

La progettazione è: “L’insieme delle attività che consentono la trasformazione di una serie di richieste (o esigenze) nella descrizione del sistema che risolve il problema e soddisfa le richieste e le esigenze mediante gli elaborati finali di progetto”. E’ del tutto evidente che gli elaborati di progetto possono estrinsecarsi, secondo i casi, in studi, calcoli, schemi, distinte, descrizioni, testi, disegni, analisi, tavole, elenchi, grafici e altro. Nella pur sintetica definizione tra virgolette è già compresa l’essenza della progettazione che consiste nel “risolvere un problema” e nel “soddisfare le richieste e le esigenze” che danno origine a ogni attività di progettazione. Ripresa da un “manuale tecnico” questa definizione è ancora più calzante per l’attività legislativa, se ancora vi fossero stati dei dubbi sulla pertinenza dell’accostamento tra attività che, per altri aspetti, sono effettivamente diverse.

Oltre alla specializzazione dei progettisti, ciascuno nella propria disciplina, per una buona progettazione bisogna seguire delle procedure e adottare dei metodi di lavoro idonei a massimizzare il risultato e a rendere minimo, se non nullo, il rischio d’insuccesso, anche parziale. Pur a fronte della complessità raggiunta da prodotti, tecnologie e servizi, noi riscontriamo un progressivo innalzamento delle prestazioni e dell’affidabilità degli stessi e sovente una progressiva diminuzione dei prezzi d’acquisto e d’esercizio (in termini reali, al netto dell’inflazione). Ciò è dovuto in buona parte al perfezionamento delle procedure di progettazione che riguardano tanto i prodotti quanto i processi operativi. In tutti i contesti organizzati si seguono delle “norme per una logica ed efficace progettazione”, delle quali si riporta un esempio sintetico e non esaustivo:

1.      Formulazione del problema e definizione delle richieste e delle esigenze da soddisfare
2.      Ricerca del percorso di progettazione più razionale
3.      Riduzione del problema in termini specifici e misurabili
4.      Ordine delle esigenze in termini d’importanza
5.      Considerazione dei vantaggi delle alternative
6.      Individuazione delle variabili dipendenti
7.      Sfruttamento di tutte le risorse disponibili
8.      Provare le teorie con dimostrazioni
9.      Definizione di tutti i parametri
10. Rifiuto dei parametri non vantaggiosi
11. Scelta dei mezzi più appropriati in relazione al problema
12. Effettuazione di controlli a ogni stadio critico
13. Revisione (riesame) generale del progetto

Le “norme di progettazione” sopraelencate sono sufficientemente comprensibili e generalmente applicabili, a prescindere dall’ambito. In questa sede ci si può limitare ad approfondire il primo e l’ultimo punto, dai quali – per quanto incredibile – dipende in massima parte l’esito del progetto, in altre parole il suo successo o insuccesso totale o parziale.

Se il problema non è ben formulato, se le richieste e le esigenze da soddisfare non sono chiaramente e completamente definite, l’insuccesso – totale o parziale – è statisticamente assicurato. E’ inutile avanzare proposte, è prematuro fare i passi successivi, se prima non si è sviscerato il problema e stabilito quando e come il problema potrà considerarsi risolto che sarà, per l’appunto, quando le richieste e/o le esigenze saranno sicuramente soddisfatte. Da decenni ormai i progettisti hanno cessato di essere dei “liberi professionisti” dei “creativi puri”, la loro professionalità è vincolata e indirizzata a risolvere problemi ben definiti, il più delle volte da soggetti terzi (rispetto al progettista e all’ente stesso per cui il progettista lavora), sulla base di ampi e vari studi (dei mercati, della società, della concorrenza, …). Questo primo punto, oltre a indirizzare e vincolare il lavoro dei progettisti, consente – e non è cosa di poco conto – di verificare se e in che misura l’elaborato di progetto è accettabile: lo sarà nella misura in cui le richieste e le esigenze sono soddisfatte. Nell’attività legislativa quest’ultimo punto appare trascurato. Infatti, tutto il dibattito e le attività per l’affinamento di un progetto di legge avvengono a partire da una o più bozze di articolato che, nelle intenzioni dei proponenti, prefigura già la legge. Sarebbe molto più proficuo un primo dibattito per definire le più volte citate richieste ed esigenze da soddisfare, che sono in altri termini gli obiettivi della legge che si vuole proporre, tecnicamente le “specifiche di progetto” e che diventano linee guida vincolanti per i “progettisti” e il metro con cui verificare la congruità dell’articolato proposto e infine approvato.

La revisione generale mira, con metodologie adeguate, a prevenire e a eliminare in sede di progetto:

·       Imperfezioni
·       Sviste
·       Elementi incerti
·       Soluzioni progettuali corrette ma superate
·       Incompletezze sostanziali e formali
·       Elementi d’interpretazione ambigua
·       Dati incerti, errati, male espressi
·       Soluzioni di difficile e/o costosa attuazione/realizzazione
·       Soluzioni ai limiti normativi (quando non al di fuori)
·       Soluzioni non adatte per determinati contesti
·       ….

Non credo sia necessario spendere parole per dire quanto sia auspicabile una sistematica e corretta applicazione di questa norma anche nell’ambito della progettazione legislativa. Nel mentre, dei limiti citati non sono affatto esenti le nostre leggi, a significare che detta attività o viene a mancare o non è svolta con la dovuta diligenza.

                                                                                              umuzzatti@gmail.com


mercoledì 12 giugno 2013

IL NEO-CENTRALISMO ITALIANO, PERICOLO DA EVITARE

Il policentrismo, di cento città e migliaia di borghi, ha fatto grande e bella l’Italia.
Il neo-centralismo rischia di distruggere un patrimonio di inestimabile valore che il mondo ci invidia.
L’Italia deve il suo primato mondiale in fatto di beni artistici, architettonici e urbanistici al policentrismo che l’ha caratterizzata per secoli, soprattutto durante il Rinascimento. Non solo, sino oltre l’unità dello Stato, gli italiani hanno continuato a sviluppare le rispettive culture regionali e locali. Il policentrismo politico e amministrativo preunitario è alla base della varietà e ricchezza delle espressioni culturali e artistiche presenti sul territorio nazionale. L’Italia è variamente bella, ben oltre a quanto le ha donato madre natura, perché centinaia di città e migliaia di borghi hanno potuto svilupparsi con elevati gradi di autonomia, coltivando ciascuno i propri talenti.
     Poi le esigenze dello Stato unitario hanno ridotto progressivamente l’autonomia delle comunità regionali e locali e avviato il processo di omologazione nazionale che è andato ben oltre l’unificazione linguistica e la parificazione dei cittadini. La Costituzione repubblicana con l’articolo 5 si prefiggeva e si prefigge ancora di “promuovere le autonomie locali; attuare nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adeguare i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.” A distanza di oltre 60 anni questo principio appare ancora inapplicato e, anzi, proprio negli ultimi tempi sono stati proposti e in parte varati provvedimenti che reintroducono o rafforzano l’accentramento o meglio le varie forme di centralismo presenti in Italia.
     L’Italia è diventata, di fatto, un paese pluri-centralistico o “centralistico multilivello” che si voglia dire. In subordine al centralismo statale si è sviluppato quello delle regioni, nello stesso tempo non siamo stati ancora capaci di eliminare almeno quello delle province. Tra i borghi più belli d’Italia sono annoverate molte frazioni, ovvero paesi che non fanno nemmeno comune, ma che in passato hanno avuto la capacità (e la possibilità) di edificare in autonomia qualcosa di unico ed eccellente. La cosa è irripetibile ai giorni nostri perché le frazioni subiscono il quarto grado del centralismo italiano, quello del capoluogo comunale.
     In questa situazione si assiste a una serie di provvedimenti, statali e regionali, che possono essere definiti neo-centralisti. Tali sono i provvedimenti che accentrano gli uffici giudiziari, tagliando i piccoli tribunali e persino i giudici di pace; il ventilato accorpamento (e non la soppressione) delle province; la chiusura di molti ospedali (e passi nel nome della specializzazione) e delle aziende sanitarie e persino dei distretti socio-sanitari, compromettendo la prevenzione sul territorio. Si vogliono accorpare le Prefetture (e passi, che in altri stati le hanno già soppresse) e pure le Questure, i Commissariati e le stazioni dei Carabinieri che sono presidio del territorio e sicurezza per i cittadini. Si potrebbe continuare in questo modo per tutti i settori di competenza di Stato e regioni. L’imperativo è tagliare, ridurre (e ci può stare) con conseguente accentramento-concentramento nelle città maggiori, e non va bene.
     La gente è inevitabilmente costretta a spostarsi dove sono attivi i servizi, da prima con il pendolarismo e poi andando a risiedervi. Ciò ha già comportato il calo demografico e l’abbandono del territorio, soprattutto montano e collinare, con conseguente depauperamento, dissesto idrogeologico e paesaggistico. Sono in sofferenza non solo i piccoli borghi, ma anche le medie cittadine che costituivano il reticolo policentrico italiano, il raccordo tra i centri urbani e i paesi di minore dimensione. L’altra faccia della medaglia è l’inurbamento della popolazione con gli effetti negativi che sono sotto gli occhi di tutti: cementificazione incontrollata, prezzi delle case elevati, servizi scadenti, tensioni sociali, inquinamento, …
     Con i provvedimenti neo-centralsitici varati o in progetto si accentueranno tutti gli effetti negativi appena accennati qui sopra. Si andrà al definitivo abbandono della montagna e dei territori rurali, si metteranno in crisi i medi centri. Le città ove si concentrano i servizi, rischiano una crescita quantitativa che sarà difficile definire sviluppo. I costi complessivi saranno enormi, nonostante le operazioni di accentramento vengano ufficialmente giustificate con l’esigenza di risparmiare. Si pensi al valore del patrimonio che viene dissipato quando si spopola e si abbandona un paese: case, fabbricati vari, strade, acquedotti, reti elettriche, telefoniche, ecc. Tutto questo dovrà essere ricostruito da un'altra parte per la popolazione migrata. Altro che risparmio. E non ci sono solo i costi materiali, ovviamente.
                                                                                              umuzzatti@gmail.com

  

domenica 2 giugno 2013

UN SISTEMA ELETTORALE PER UN’ITALIA DEMOCRATICA

La tormentata, inconclusa e inconcludente vicenda della legge elettorale per il parlamento italiano ha toccato, nei giorni scorsi, uno dei punti più bassi e avvilenti. Credo che ormai sia chiaro, anche ai più ingenui dei cittadini, che a tanto si è arrivati perché nessuno pensa all’ interesse della nazione intera e dei cittadini tutti ma, bensì, al proprio tornaconto. Non si spiegherebbero altrimenti le difficoltà a trovare un accordo per “sacrificare il porcellum” e ridare all’ Italia una legge elettorale democratica come vuole la Costituzione.
    L’interesse nazionale e dei cittadini è di avere un sistema elettorale che consenta di portare in parlamento dei soggetti con un complesso di caratteristiche, variamente articolato e orientato politicamente, ma imprescindibilmente permeato di conoscenza, competenza, intelligenza, integrità, motivazione, carattere, lungimiranza, sensibilità, … Se non i migliori in assoluto, il sistema elettorale deve consentire almeno di eleggere dei rappresentati idonei da tutti i punti di vista, a ricoprire un ruolo così determinante per la sorte del paese e della popolazione.
     Il sistema deve consentire la pari opportunità di partecipazione (e di successo) a tutti i candidati, che mediante partiti, movimenti e liste, rappresentano l’insieme della società e le sue componenti con le aspirazioni e gli interessi legittimi della stessa. L’esito finale del processo elettorale dovrà essere un’assemblea di eletti che possono essere diversi per orientamento politico, ma devono essere accomunati dalle caratteristiche di adeguatezza al ruolo. Ciò che in tutta evidenza non è stato nelle ultime tornate elettorali, compresa l’ultima i cui effetti si dispiegano tuttora (ed auspicabilmente ancora per qualche tempo, non ostante tutto).
     Dal dibattito in corso, per la necessaria riforma, emergono sempre e solo pochi punti. Si spera che dei numerosi altri che formano un sistema elettorale completo non scrivano i media, ma che siano tenuti nella dovuta considerazione dal legislatore. Tra i più citati è ovviamente il tema della governabilità che deve essere assicurata alla fine della tornata elettorale e, possibilmente, per l’intera legislatura. Qui le insidie, per la democrazia, non mancano. Se la sovranità appartiene veramente al popolo che la esercita, quasi esclusivamente, scegliendo i suoi rappresentati con il voto, elevate soglie di sbarramento o premi di maggioranza troppo generosi sono un vulnus alla democrazia e sicuramente materia per la Corte costituzionale.

    Certo la governabilità è indispensabile, ma non può essere ottenuta stravolgendo la volontà popolare espressa con il voto. Né si potrà pretendere che la complessità della società odierna sia rappresentata da due poli o, peggio, da due soli partiti. Perché, in pratica, a ciò conducono gli sbarramenti e i premi di maggioranza. E allora come se ne esce? Come si conciliano rappresentanza democraticamente eletta e governabilità? Intanto, direi, cominciamo a vedere come fanno i presidenti di due solidissime nazioni, Francia e USA, a governare anche senza la maggioranza nelle camere parlamentari. E’ successo molte volte e per periodi non brevi, in certi casi per intere legislature. Evidentemente il meccanismo che lo consente (e lo rende prassi normale) è insito nel sistema istituzionale e non solo nella legge elettorale.                                     
                                                                                          umuzzatti@gmail.com

sabato 25 maggio 2013

UNICO, UNA DICHIARAZIONE DI GUERRA AL CONTRIBUENTE


Quanto pesa la dichiarazione dei redditi del contribuente italiano?
Davvero non ci sono alternative alla farraginosa procedura italiana? Gli esempi di Francia e Canada confermano che semplificare, di molto, si può.
Politici e amministratori, molti dei quali con lauree e master conseguiti all’estero, davvero non conoscono i sistemi fiscali in essere negli altri paesi? Se li conoscono perché infliggono ai contribuenti italiani un supplizio … UNICO?

Non voglio trattare in questa sede l’incidenza diretta delle imposte e, quindi, il peso economico che queste hanno sulle famiglie e sulle imprese italiane. Mi voglio limitare ai danni collaterali derivanti dalla complessità e onerosità della compilazione e presentazione della dichiarazione e delle modalità di versamento delle imposte. Il modello UNICO Persone fisiche 2013, al pari di quelli precedenti, è talmente ostico e ostile da sembrare una dichiarazione di guerra al cittadino-contribuente.
     Il fascicolo 1 di UNICO - utilizzabile da chi ha solo redditi di terreni, dei fabbricati, di lavoro dipendente e assimilati - prospetti da compilare più istruzioni, pesa quasi mezzo chilogrammo (410 grammi per l’esattezza). Consta di 112 pagine di istruzioni in formato A4 e di 8 + 8 prospetti da compilare, sempre in formato A4. In alternativa, al modello standard alcuni contribuenti, possono compilare UNICO MINI. Solo 24 pagine di istruzioni e 4+4 prospetti da compilare.
     Molti contribuenti avranno anche altri redditi, di partecipazione, soggetti a tassazione separata, plusvalenze finanziarie, ecc. per cui dovranno utilizzare anche il fascicolo 2. Vale a dire altre 48 pagine di istruzioni e 8+8 prospetti da compilare. Peso, circa 160 grammi. Lavoratori autonomi, professionisti e imprenditori dovranno utilizzare anche il fascicolo 3. Il quale si compone di 86 pagine di istruzioni e 16+16 prospetti da compilare. Infine, alcuni di questi ultimi dovranno compilare il prospetto “Indicatori di normalità economica”, una mezza paginetta (Deo gratias) per la quale basterà leggere 7 pagine di istruzioni.
     Complessivamente UNICO PF 21013, con i suoi 3 fascicoli, pesa quasi un chilogrammo (e speriamo che sia carta riciclata). In tutto ci sono 253 pagine di istruzioni formato A4 e, un contribuente che avesse tutte le tipologie di reddito, arriverebbe a compilare 29+29 prospetti analitici, zeppi di dati. Per pagare le imposte dovute, poi, dovrà compilare in 3 copie il modello F24, corredato di due pagine di istruzioni nelle quali, però, non figurano i codici tributo (Irpef a saldo e in acconto, addizionale regionale e comunale, ecc.) che andranno ricercati altrove. E finalmente potrà recarsi in banca o in posta a fare il proprio dovere di cittadino-contribuente.
     Quanto ai contenuti da riportare nei prospetti di UNICO facciamo solo l’esempio del rigo RN10 Detrazione per redditi di lavoro dipendente. Per un lavoratore che abbia in busta paga 1.000 euro netti al mese e quindi un reddito lordo annuale di circa 27.000 (a questo porta il cuneo fiscale) bisogna operare il calcolo seguente (pag.72 fascicolo 1 di UNICO).
1)     Quoziente = (55.000-Reddito per detrazioni)/40.000
Se il Quoziente è superiore a zero e minore di uno devono essere utilizzate le prime quattro cifre decimali.
2)     Detrazione spettante = [ 1.338 x Quoziente x (N.giorni lav.dip/365) ]
3)     Se il reddito per detrazioni è superiore a euro 23.000 e non è superiore a euro 28.000 la detrazione come sopra determinata deve essere aumentata di un determinato importo, come descritto nella tabella che segue: (omissis).
L’altro giorno, immerso in questi calcoli, mi è tornata alla mente la visita che feci, qualche anno fa, ad uno zio stabilitosi in Francia. In particolare a quando il discorso cadde sulle imposte. Lo zio disse che proprio nei giorni precedenti gli era stata recapitata (N.B.) a mezzo posta la “Proposta di dichiarazione dei redditi”, compilata dai competenti uffici. Da un cassetto, infatti, trasse un foglio (1) formato A4 in cui erano riportati tutti i redditi suoi e della moglie. Nella fattispecie due pensioni, due case e un terreno (NB). In fondo alla seconda facciata era riportata l’imposta netta. Che lo zio aveva già pagato, perché non aveva elementi da far rettificare. Solo in quel caso egli si sarebbe recato all’ufficio fiscale, o avrebbe mandato per posta o in via telematica, una domanda di rettifica che sarebbe stata immediatamente accolta, nel caso sussistessero gli elementi necessari.
     Un conoscente che ha soggiornato e lavorato in Canada mi assicura che in quel paese vige un sistema simile a quello francese e chissà in quanti altri, le cose stanno più o meno così. Difficile credere, invece, che ci siano al mondo sistemi fiscali più farraginosi del nostro. Non ci sono altre possibilità:
         -o i nostri politici e amministratori non lo sanno;
         -o lo sanno e, nonostante ciò, non provvedono alle necessarie riforme.
E davvero non si sa quale, delle due, sia l’ipotesi peggiore.
                                                                                              umuzzatti@gmail.com

lunedì 20 maggio 2013

COSTI DELLA POLITICA E FINANZIAMENTO AI PARTITI


Possono essere ridotti con un Sistema elettorale basato su Collegi uninominali o Circoscrizioni di piccole dimensioni (con pochi elettori e numero minimo di eletti).
I primi sono presenti tanto nel maggioritario a turno unico anglosassone, nel doppio turno francese e, in parte, persino nel sistema proporzionale tedesco. Le Circoscrizioni ridotte, invece, correggono i sistemi proporzionali in Spagna e Svizzera.
Le Preferenze, da tutti invocate, non sono sufficienti per reintrodurre una  democrazia compiuta in Italia e possono nascondere qualche insidia, se introdotte in un Sistema elettorale basato su Circoscrizioni plurinominali di grandi dimensioni.

Il dibattito sul finanziamento pubblico dei partiti è più che mai aperto. Il confronto tra chi vuole abolirlo (lo avevamo già fatto con un referendum!) e chi vuole mantenerlo (dopo la reintroduzione mascherata da rimborsi elettorali) si arricchisce di nuovi contributi. Su L’Espresso, il direttore Bruno Manfellotto si domanda: “ Ma è davvero una buona idea togliere tutti i soldi ai partiti?” e risponde che “abolirlo del tutto sarebbe un errore colossale”. Il direttore ci ricorda anche che “In tutta Europa non c’è democrazia che non abbia una qualche forma di sostegno pubblico”. Riporta le cifre che si spendono in Francia e Spagna, di poco inferiori a quelle italiane, e in Germania, tre volte tanto i sussidi nostrani.
     Il direttore de L’Espresso spiega, infine, che senza i soldi pubblici potrebbe affacciarsi alla politica solo chi ne ha tanti di propri, chi ha il favore delle lobby e dei potentati, chi può pagarsi una costosa campagna elettorale. Tali preoccupazioni sono state espresse più volte, soprattutto dai partiti del centro sinistra, dalle compagini minori e da quanti ambivano a entrare nelle istituzioni con una nuova formazione. Il problema esiste ed è serio in una democrazia che voglia continuare a essere tale e magari anche consolidarsi, raggiungere gradi superiori di attuazione.
     E’ possibile che non ci siano ancora le condizioni per abolire del tutto il sostegno pubblico al sistema politico che assicura la democrazia. Ma il tempo delle generose e incontrollate elargizioni di denaro pubblico ad associazioni private (tali sono i partiti) è ormai scaduto. Oltre alle “leggi chiare e controlli ferrei” invocati, direi che ci sono tutte le premesse per una drastica riduzione di finanziamenti e rimborsi ai partiti, alla politica in genere e ai politici di ogni ordine e grado.  Si pensi solo al potenziale già espresso e ancora da espandere dei nuovi media per la comunicazione, la consultazione, l’aggregazione politica e per forme di democrazia diretta. Il tutto a costi ridottissimi rispetto alle modalità tradizionali.
     In ogni caso, le maggiori garanzie di accesso alla politica, per tutti e non solo per chi ha grandi risorse finanziarie e mediatiche, le può offrire solo un adeguato Sistema elettorale. E così pure una drastica riduzione dei costi per le campagne elettorali, dei partiti e dei singoli candidati. Ingenti somme per la propaganda sono necessarie con i Sistemi elettorali che prevedono grandi circoscrizioni con l’elezione di più candidati. Ingentissime, poi, sono le somme da spendere per prevalere in un “Sistema plurinominale, applicato a un collegio unico nazionale”, l’attuale metodo di elezione per la Camera in Italia. Con questo sistema prevarrà sempre chi ha molti mezzi e grande visibilità/notorietà (non necessariamente connesse alle capacità politiche o amministrative).
     Con i collegi elettorali piccoli e compatti (e conseguentemente uninominali) un candidato noto e apprezzato in ambito locale (per la sua vicenda amministrativa, politica, professionale, associativa, culturale, …) può spuntarla con modestissime spese anche nei confronti di “potenti e paracadutati”. E’ successo in molti casi al tempo del “Mattarellum” che prevedeva l’elezione del 75 per cento dei deputati in collegi uninominali. Questa valenza, veramente democratica e anti-oligarchica, ha decretato la fine di quel sistema elettorale che non ha trovato paladini né a destra né a sinistra.
     Si rifletta sul fatto che non solo il Sistema maggioritario a un turno anglosassone e quello a doppio turno francese si basano su collegi uninominali e quindi di piccole dimensioni, ma, addirittura, nel Sistema proporzionale tedesco la metà dei deputati, 299, viene eletta in altrettanti collegi uninominali e l’altra metà attraverso il voto alle liste di partito nel Collegio unico nazionale. Anche in Spagna e Svizzera sono in vigore dei Sistemi proporzionali corretti, proprio mediante la riduzione delle Circoscrizioni. Per quanto sopra si può ritenere che l’adozione dei Collegi uninominali o di Circoscrizioni elettorali di ampiezza ridotta siano un elemento fondamentale per la reintroduzione della democrazia in Italia dopo la sospensione de facto attuata con il Porcellum.
     Infine, bisogna considerare che le Preferenze, da tutti invocate, non sono sufficienti per reintrodurre una  democrazia compiuta in Italia e possono nascondere qualche insidia se introdotte in un Sistema elettorale basato su circoscrizioni plurinominali di grandi dimensioni. Se, per esempio, si volesse modificare la legge attuale introducendo le preferenze e mantenendo il “Collegio unico nazionale” per la Camera e i “Macrocollegi plurinominali per il Senato” cambierebbe ben poco. Continuerebbero, infatti, a prevalere  potenti, potentati e paracadutati, anche a scapito dei competenti, perché i costi per una campagna elettorale, su scala nazionale, sono inavvicinabili per i candidati e i cittadini normali.
                                                                                              umuzzatti@gmail.com

venerdì 17 maggio 2013

LEZIONI AMERICANE, IL LAVORO ITALIANO NEGLI U.S.A.


Nei giorni scorsi i visitatori americani di questo blog hanno superato quelli dell’Italia. Negli Stati Uniti risiede il quindici per cento dei lettori della VOCE CIVICA. Non conosco la ragione ma mi fa piacere. Voglio omaggiare chi mi legge dagli States con un ricordo delle mie trasferte di lavoro a Fort Worth – Texas.
Per molti anni ho fatto parte di un gruppo di lavoro dedito ai trasferimenti di know-how dall’Italia in tutto il mondo. Il mio ruolo era la formazione del personale locale, insegnavo loro a padroneggiare una tecnologia italiana, derivata dagli studi che valsero al professor Natta il premio Nobel per la chimica.
Da quelle esperienze ho tratto un manoscritto “La Valigia di Pelle – per il mondo al tempo della globalizzazione”. Di quel libro, in attesa di pubblicazione, riporto il primo racconto.
                                                                                              umuzzatti@gmail.com

La voliera più grande del mondo
Gli Stati Uniti sono una terra di molti contrasti, tenuti insieme da una capacità d’integrazione che riesce a far convivere popoli e culture, climi e paesaggi affatto omogenei, architetture neoclassiche e grattacieli, i veicoli spaziali e i calessi degli Amish. Già arrivando sopra New York con un volo dall’Europa, si nota il “contrasto armonico” tra la Statua della Libertà e lo skyline di Manhattan. Giungendo, poi, all’aeroporto di Dallas – Fort Worth, meta finale del nostro viaggio di lavoro, inizia un percorso tra elementi contrastanti di ogni tipo e che pure coesistono senza sforzo apparente. Dall’avveniristico complesso aeroportuale texano al downtown di Fort Worth, “il luogo dove comincia il West”, si compie un viaggio avventuroso nello spazio e nel tempo. Il centro storico della città, infatti, è stato mantenuto come ai tempi della “frontiera” e quando c’è la fiera, si vedono ancora i cavalli legati alla staccionata fuori dei saloon.
     Quando giungemmo negli uffici della società di cui eravamo consulenti, la cosa che più ci colpì fu il contrasto tra i computer e le scrivanie su cui erano posati. Modernissimi i primi, modelli non ancora disponibili in Italia. Le scrivanie, invece, ci riportarono indietro agli anni cinquanta, alle cattedre di legno massiccio delle nostre maestre. Più tardi Mr. Lawson ci spiegò che, in fondo, una scrivania è solo un piano di appoggio e lavoro: fin che svolge questa funzione, non c’è motivo di cambiarla. Questa fu solo la prima lezione di “analisi del valore” che apprendemmo in quella trasferta.
     La seconda lezione arrivò per gradi nei giorni seguenti. Per il nuovo impianto, acquisito chiavi in mano in Italia, l’azienda texana stava costruendo un nuovo stabilimento. La prima volta che ci portarono in cantiere era già in piedi la struttura in carpenteria metallica. Dissero che sarebbe stato pronto nel giro di due settimane. Non dubitammo pensando a un rivestimento e alla copertura in pannelli prefabbricati. Invece, nei giorni seguenti, l’involucro del fabbricato, falde del tetto comprese, fu rivestito da una rete metallica leggera, tipo quella usata per i pollai. Sembrava un’enorme voliera. Aspettammo e vedemmo che, poi, cominciando dal tetto, sulla rete venivano stesi dei rotoli di materiale isolante supportato, verso l’interno del fabbricato, da una pellicola di plastica bianca. Infine all’esterno, fissandole con viti ai correnti metallici della struttura, furono fissate delle lamiere grecate, con la classica funzione di tamponamento con adeguata resistenza. Montate le porte nei vani predisposti, essendo privo di finestre per evitare le dispersioni termiche, il capannone era in pratica finito.
Mr. Hopkins, concluse la seconda lezione di “analisi del valore” facendoci osservare che, in fondo, la funzione propria del fabbricato, contenere in sicurezza e confortevolmente addetti, impianti e materiali, era soddisfatta. Ma io resto dell’idea che, in questo caso, abbia ragione il legislatore europeo che impone nei luoghi di lavoro un’adeguata finestratura, di cui una parte apribile, perché i lavoratori abbiano luce e aria naturale. Che d’altronde sarebbe bene assicurare anche ai polli.

giovedì 16 maggio 2013

I DIRITTI ACQUISITI, GIUSTE TUTELE O PRIVILEGI LEGALIZZATI?


Di fronte a certe situazioni italiane, inaccettabili e apparentemente inamovibili, si è presi dallo sconforto. Viene da pensare se sia mai possibile che nessuno ci pensi, vada al fondo delle questioni, ne scopra le origini e proponga dei rimedi. A ben guardare, però, qualcuno che ci pensa si trova. Dalla massa delle informazioni che ci sommergono, si possono ancora estrarre dei passi interessanti che andrebbero meditati e tradotti in provvedimenti. Ne riporto uno dal quotidiano Il Gazzettino del 16 maggio. Si tratta di un intervento del Deputato di Scelta Civica Enrico Zanetti.
     “Questo paese è bloccato dalla logica del diritto acquisito e lo è doppiamente perché, nella sua sistematica incapacità di assumere decisioni e di fare distinguo tra situazioni virtuose e viziose, pretende di tutelare acriticamente qualsiasi posizione maturata o anche mera aspettativa, senza neppure distinguere tra quelli che sono in effetti diritti da tutelare e quelli che sono oggettivamente privilegi da smantellare. Bisogna passare dalla logica del diritto acquisito a quella del diritto sostenibile, in forza del quale l’unico diritto che può considerarsi acquisito è quello che può continuare ad essere acquisito anche da chi non ne è già titolare”.
     Questo il passaggio cruciale dell’onorevole Zanetti. Parole sacrosante che andrebbero scolpite sopra gli scranni dei legislatori, perché – in effetti – i diritti acquisiti traggono normalmente origine da una legge approvata dal Parlamento. Norma che si vorrebbe mantenere immutata anche a fronte di cambiamenti epocali.  Rispetto a quanto scrive il deputato di Scelta Civica, io mi domando, e non da ora, se si può considerare acquisto un diritto che non è commisurato, correlato al diritto degli altri che si trovino nella medesima situazione. Se è diritto un provvedimento legislativo che nella pratica realizza una disparità tra soggetti e situazioni equiparabili. Se è diritto un provvedimento particolare che non tiene conto del contesto generale.  
     La legislazione del lavoro e previdenziale, quella relativa alle attività economiche private e al pubblico impiego hanno generato tutta una serie di “diritti acquisiti” che sono insostenibili e non più raggiungibili da nuovi soggetti, come dice l’onorevole Zanetti. E spesso non sono correlati ai (non) diritti di altri e commisurati alle reali condizioni del paese, aggiungo io.  I “diritti acquisiti” da alcune categorie nel passato limitano, ora, i diritti dei giovani a un lavoro non precario e degli anziani a trattamenti pensionistici adeguati. Le riforme promesse e necessarie dovranno tenerne conto. Anche andando a commisurare i “diritti acquisiti” da alcuni, al diritto di tutti e alle possibilità del Paese.
                                                                                              umuzzatti@gmail.com