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mercoledì 26 giugno 2013

PROFILI METODOLOGICI PER LA PROGETTAZIONE LEGISLATIVA

Progetti e progettisti, di beni, servizi e norme, più analogie di quanto si possa (o voglia) credere

Giustamente le prime bozze di una norma, e i successivi elaborati sino al momento della definitiva approvazione, sono definiti “progetti di legge” o “disegni di legge”. Non si progettano solo i beni materiali (automobili, elettrodomestici, case, …), ma anche i beni immateriali e i servizi (una polizza, un pacchetto vacanze, un fondo d’investimento, …) e, sicuramente, anche le norme e prescrizioni (emesse da enti pubblici o privati) e le leggi, che nel nostro ordinamento sono riservate al livello statale e regionale.

Nella sua stesura finale, il progetto è l’elaborato (o insieme di elaborati) che descrive e definisce in maniera appropriata, esaustiva, comprensibile e univoca le caratteristiche costitutive e realizzative dell’oggetto. La definizione è valida tanto per un bene, quanto per un servizio o una norma. Cambieranno, secondo i casi, gli elaborati (disegno tecnico per un particolare meccanico, schema unifilare per un impianto elettrico, modulo di sottoscrizione per una polizza, …) e su questi le modalità che descrivono e definiscono l’oggetto (dimensioni, misure, qualità, descrizioni, prescrizioni, …). Una differenza, che non inficia lo scopo e l’assunto della presente trattazione, è costituita dal fatto che il progetto approvato (si definisce così anche in ambito tecnico) di un bene e di un servizio prefigura gli stessi (ovvero come saranno quando fabbricati o erogati) mentre nel caso di una norma e di una legge con l’approvazione definitiva (e successiva promulgazione) il progetto diventa tal quale il “prodotto”.

Delle statistiche, più volte ripetute, hanno evidenziato che, dato un prodotto (o un servizio) e fatto 100 le probabilità o, meglio, le ragioni di successo, queste risiedono per il settanta per cento nella “bontà” del progetto. I processi di produzione, promozione, commercializzazione e assistenza pesano complessivamente solo per il 30 per cento. Ciò perché un “buon progetto” definisce “tutto” (materiali, dimensioni, prestazioni, qualità, costi, …, sulla base d’input commerciali (livello di servizio, di qualità, di prezzo, target, …) e industriali (tecnologie produttive, conoscenze e competenze disponibili, lay-out operativi, …). In definitiva per un prodotto di successo serve un progetto ottimo.

A maggior ragione, è indispensabile un progetto ottimo quando questi, nella sua versione definitiva, diviene il prodotto stesso, senza ulteriori processi di trasformazione. Ed è questo il caso, come si è visto, dei progetti di legge che, una volta approvati dall’organo preposto, diventano la legge stessa. Si potrebbe obiettare che l’effettiva applicazione della legge avviene, molto spesso, in base a un regolamento di attuazione emanato in seguito. E’ di tutta evidenza che il “progetto completo” che definisce in “maniera appropriata, esaustiva, comprensibile e univoca” l’oggetto della norma è costituito dal binomio “legge–regolamento attuativo”. Resta quindi immutata l’esigenza di elaborare, con passaggi di affinamento successivi (è normale), progetti ottimi per i quali sono indispensabili:

-progettisti motivati e qualificati;
-procedure e metodi di lavoro appropriati.

Riferendosi alle leggi i “progettisti titolari” sono, ovviamente, i parlamentari e i consiglieri regionali, per i due livelli legislativi presenti in Italia. Sono loro, normalmente, che presentano i disegni di legge in forma singola, o di gruppo. Sono poi loro a discutere, integrare, modificare e infine approvare le leggi, in commissioni ristrette e in assemblea plenaria. In questo senso essi sono i “progettisti responsabili” anche quando, come normalmente avviene, parte del progetto, e dei passaggi propedeutici allo stesso, è curato da tecnici e funzionari interni alle istituzioni o esperti e consulenti incaricati o, anche, soggetti esterni, tali – per esempio – sono i partiti. In quale misura i “progettisti titolari e responsabili” sono anche “motivati e qualificati” per il delicatissimo incarico di legislatore? Sarebbe fuorviante tentare una risposta in questa sede e anche in altre: il rischio di personalizzazioni, sotto e sovra valutazioni, sulla base di elementi parziali è troppo elevato. Meglio limitarsi a qualche riflessione che, per altro, è raramente proposta. Eppure appare necessaria:

-Anche se non tutti i legislatori partecipano direttamente alla stesura delle leggi, anche se essi si giovano (giustamente) di esperti, non di meno tutti dovrebbero avere in nuce, se non tutte, almeno parte delle abilità, naturali o acquisite, di un buon progettista, a partire dalla capacità di lettura (in profondità) dei progetti elaborati da altri e di incidervi.

-Il sistema attuale di selezione della classe politico-amministrativa non porta a una sufficiente distinzione tra ruoli legislativi, esecutivi e amministrativi. Si mandano nelle istituzioni elettive dei “politici”, senza badare al ruolo che assumeranno. Ma sono ben diverse le conoscenze, le competenze, le abilità, che devono avere un legislatore (regionale o statale) e un amministratore (assessore, sindaco, presidente di regione o provincia, ministro). Legiferare e amministrare non sono, esattamente, la stessa cosa.

Della progettazione in generale e in ambito legislativo

La progettazione è: “L’insieme delle attività che consentono la trasformazione di una serie di richieste (o esigenze) nella descrizione del sistema che risolve il problema e soddisfa le richieste e le esigenze mediante gli elaborati finali di progetto”. E’ del tutto evidente che gli elaborati di progetto possono estrinsecarsi, secondo i casi, in studi, calcoli, schemi, distinte, descrizioni, testi, disegni, analisi, tavole, elenchi, grafici e altro. Nella pur sintetica definizione tra virgolette è già compresa l’essenza della progettazione che consiste nel “risolvere un problema” e nel “soddisfare le richieste e le esigenze” che danno origine a ogni attività di progettazione. Ripresa da un “manuale tecnico” questa definizione è ancora più calzante per l’attività legislativa, se ancora vi fossero stati dei dubbi sulla pertinenza dell’accostamento tra attività che, per altri aspetti, sono effettivamente diverse.

Oltre alla specializzazione dei progettisti, ciascuno nella propria disciplina, per una buona progettazione bisogna seguire delle procedure e adottare dei metodi di lavoro idonei a massimizzare il risultato e a rendere minimo, se non nullo, il rischio d’insuccesso, anche parziale. Pur a fronte della complessità raggiunta da prodotti, tecnologie e servizi, noi riscontriamo un progressivo innalzamento delle prestazioni e dell’affidabilità degli stessi e sovente una progressiva diminuzione dei prezzi d’acquisto e d’esercizio (in termini reali, al netto dell’inflazione). Ciò è dovuto in buona parte al perfezionamento delle procedure di progettazione che riguardano tanto i prodotti quanto i processi operativi. In tutti i contesti organizzati si seguono delle “norme per una logica ed efficace progettazione”, delle quali si riporta un esempio sintetico e non esaustivo:

1.      Formulazione del problema e definizione delle richieste e delle esigenze da soddisfare
2.      Ricerca del percorso di progettazione più razionale
3.      Riduzione del problema in termini specifici e misurabili
4.      Ordine delle esigenze in termini d’importanza
5.      Considerazione dei vantaggi delle alternative
6.      Individuazione delle variabili dipendenti
7.      Sfruttamento di tutte le risorse disponibili
8.      Provare le teorie con dimostrazioni
9.      Definizione di tutti i parametri
10. Rifiuto dei parametri non vantaggiosi
11. Scelta dei mezzi più appropriati in relazione al problema
12. Effettuazione di controlli a ogni stadio critico
13. Revisione (riesame) generale del progetto

Le “norme di progettazione” sopraelencate sono sufficientemente comprensibili e generalmente applicabili, a prescindere dall’ambito. In questa sede ci si può limitare ad approfondire il primo e l’ultimo punto, dai quali – per quanto incredibile – dipende in massima parte l’esito del progetto, in altre parole il suo successo o insuccesso totale o parziale.

Se il problema non è ben formulato, se le richieste e le esigenze da soddisfare non sono chiaramente e completamente definite, l’insuccesso – totale o parziale – è statisticamente assicurato. E’ inutile avanzare proposte, è prematuro fare i passi successivi, se prima non si è sviscerato il problema e stabilito quando e come il problema potrà considerarsi risolto che sarà, per l’appunto, quando le richieste e/o le esigenze saranno sicuramente soddisfatte. Da decenni ormai i progettisti hanno cessato di essere dei “liberi professionisti” dei “creativi puri”, la loro professionalità è vincolata e indirizzata a risolvere problemi ben definiti, il più delle volte da soggetti terzi (rispetto al progettista e all’ente stesso per cui il progettista lavora), sulla base di ampi e vari studi (dei mercati, della società, della concorrenza, …). Questo primo punto, oltre a indirizzare e vincolare il lavoro dei progettisti, consente – e non è cosa di poco conto – di verificare se e in che misura l’elaborato di progetto è accettabile: lo sarà nella misura in cui le richieste e le esigenze sono soddisfatte. Nell’attività legislativa quest’ultimo punto appare trascurato. Infatti, tutto il dibattito e le attività per l’affinamento di un progetto di legge avvengono a partire da una o più bozze di articolato che, nelle intenzioni dei proponenti, prefigura già la legge. Sarebbe molto più proficuo un primo dibattito per definire le più volte citate richieste ed esigenze da soddisfare, che sono in altri termini gli obiettivi della legge che si vuole proporre, tecnicamente le “specifiche di progetto” e che diventano linee guida vincolanti per i “progettisti” e il metro con cui verificare la congruità dell’articolato proposto e infine approvato.

La revisione generale mira, con metodologie adeguate, a prevenire e a eliminare in sede di progetto:

·       Imperfezioni
·       Sviste
·       Elementi incerti
·       Soluzioni progettuali corrette ma superate
·       Incompletezze sostanziali e formali
·       Elementi d’interpretazione ambigua
·       Dati incerti, errati, male espressi
·       Soluzioni di difficile e/o costosa attuazione/realizzazione
·       Soluzioni ai limiti normativi (quando non al di fuori)
·       Soluzioni non adatte per determinati contesti
·       ….

Non credo sia necessario spendere parole per dire quanto sia auspicabile una sistematica e corretta applicazione di questa norma anche nell’ambito della progettazione legislativa. Nel mentre, dei limiti citati non sono affatto esenti le nostre leggi, a significare che detta attività o viene a mancare o non è svolta con la dovuta diligenza.

                                                                                              umuzzatti@gmail.com


mercoledì 12 giugno 2013

IL NEO-CENTRALISMO ITALIANO, PERICOLO DA EVITARE

Il policentrismo, di cento città e migliaia di borghi, ha fatto grande e bella l’Italia.
Il neo-centralismo rischia di distruggere un patrimonio di inestimabile valore che il mondo ci invidia.
L’Italia deve il suo primato mondiale in fatto di beni artistici, architettonici e urbanistici al policentrismo che l’ha caratterizzata per secoli, soprattutto durante il Rinascimento. Non solo, sino oltre l’unità dello Stato, gli italiani hanno continuato a sviluppare le rispettive culture regionali e locali. Il policentrismo politico e amministrativo preunitario è alla base della varietà e ricchezza delle espressioni culturali e artistiche presenti sul territorio nazionale. L’Italia è variamente bella, ben oltre a quanto le ha donato madre natura, perché centinaia di città e migliaia di borghi hanno potuto svilupparsi con elevati gradi di autonomia, coltivando ciascuno i propri talenti.
     Poi le esigenze dello Stato unitario hanno ridotto progressivamente l’autonomia delle comunità regionali e locali e avviato il processo di omologazione nazionale che è andato ben oltre l’unificazione linguistica e la parificazione dei cittadini. La Costituzione repubblicana con l’articolo 5 si prefiggeva e si prefigge ancora di “promuovere le autonomie locali; attuare nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adeguare i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.” A distanza di oltre 60 anni questo principio appare ancora inapplicato e, anzi, proprio negli ultimi tempi sono stati proposti e in parte varati provvedimenti che reintroducono o rafforzano l’accentramento o meglio le varie forme di centralismo presenti in Italia.
     L’Italia è diventata, di fatto, un paese pluri-centralistico o “centralistico multilivello” che si voglia dire. In subordine al centralismo statale si è sviluppato quello delle regioni, nello stesso tempo non siamo stati ancora capaci di eliminare almeno quello delle province. Tra i borghi più belli d’Italia sono annoverate molte frazioni, ovvero paesi che non fanno nemmeno comune, ma che in passato hanno avuto la capacità (e la possibilità) di edificare in autonomia qualcosa di unico ed eccellente. La cosa è irripetibile ai giorni nostri perché le frazioni subiscono il quarto grado del centralismo italiano, quello del capoluogo comunale.
     In questa situazione si assiste a una serie di provvedimenti, statali e regionali, che possono essere definiti neo-centralisti. Tali sono i provvedimenti che accentrano gli uffici giudiziari, tagliando i piccoli tribunali e persino i giudici di pace; il ventilato accorpamento (e non la soppressione) delle province; la chiusura di molti ospedali (e passi nel nome della specializzazione) e delle aziende sanitarie e persino dei distretti socio-sanitari, compromettendo la prevenzione sul territorio. Si vogliono accorpare le Prefetture (e passi, che in altri stati le hanno già soppresse) e pure le Questure, i Commissariati e le stazioni dei Carabinieri che sono presidio del territorio e sicurezza per i cittadini. Si potrebbe continuare in questo modo per tutti i settori di competenza di Stato e regioni. L’imperativo è tagliare, ridurre (e ci può stare) con conseguente accentramento-concentramento nelle città maggiori, e non va bene.
     La gente è inevitabilmente costretta a spostarsi dove sono attivi i servizi, da prima con il pendolarismo e poi andando a risiedervi. Ciò ha già comportato il calo demografico e l’abbandono del territorio, soprattutto montano e collinare, con conseguente depauperamento, dissesto idrogeologico e paesaggistico. Sono in sofferenza non solo i piccoli borghi, ma anche le medie cittadine che costituivano il reticolo policentrico italiano, il raccordo tra i centri urbani e i paesi di minore dimensione. L’altra faccia della medaglia è l’inurbamento della popolazione con gli effetti negativi che sono sotto gli occhi di tutti: cementificazione incontrollata, prezzi delle case elevati, servizi scadenti, tensioni sociali, inquinamento, …
     Con i provvedimenti neo-centralsitici varati o in progetto si accentueranno tutti gli effetti negativi appena accennati qui sopra. Si andrà al definitivo abbandono della montagna e dei territori rurali, si metteranno in crisi i medi centri. Le città ove si concentrano i servizi, rischiano una crescita quantitativa che sarà difficile definire sviluppo. I costi complessivi saranno enormi, nonostante le operazioni di accentramento vengano ufficialmente giustificate con l’esigenza di risparmiare. Si pensi al valore del patrimonio che viene dissipato quando si spopola e si abbandona un paese: case, fabbricati vari, strade, acquedotti, reti elettriche, telefoniche, ecc. Tutto questo dovrà essere ricostruito da un'altra parte per la popolazione migrata. Altro che risparmio. E non ci sono solo i costi materiali, ovviamente.
                                                                                              umuzzatti@gmail.com

  

domenica 2 giugno 2013

UN SISTEMA ELETTORALE PER UN’ITALIA DEMOCRATICA

La tormentata, inconclusa e inconcludente vicenda della legge elettorale per il parlamento italiano ha toccato, nei giorni scorsi, uno dei punti più bassi e avvilenti. Credo che ormai sia chiaro, anche ai più ingenui dei cittadini, che a tanto si è arrivati perché nessuno pensa all’ interesse della nazione intera e dei cittadini tutti ma, bensì, al proprio tornaconto. Non si spiegherebbero altrimenti le difficoltà a trovare un accordo per “sacrificare il porcellum” e ridare all’ Italia una legge elettorale democratica come vuole la Costituzione.
    L’interesse nazionale e dei cittadini è di avere un sistema elettorale che consenta di portare in parlamento dei soggetti con un complesso di caratteristiche, variamente articolato e orientato politicamente, ma imprescindibilmente permeato di conoscenza, competenza, intelligenza, integrità, motivazione, carattere, lungimiranza, sensibilità, … Se non i migliori in assoluto, il sistema elettorale deve consentire almeno di eleggere dei rappresentati idonei da tutti i punti di vista, a ricoprire un ruolo così determinante per la sorte del paese e della popolazione.
     Il sistema deve consentire la pari opportunità di partecipazione (e di successo) a tutti i candidati, che mediante partiti, movimenti e liste, rappresentano l’insieme della società e le sue componenti con le aspirazioni e gli interessi legittimi della stessa. L’esito finale del processo elettorale dovrà essere un’assemblea di eletti che possono essere diversi per orientamento politico, ma devono essere accomunati dalle caratteristiche di adeguatezza al ruolo. Ciò che in tutta evidenza non è stato nelle ultime tornate elettorali, compresa l’ultima i cui effetti si dispiegano tuttora (ed auspicabilmente ancora per qualche tempo, non ostante tutto).
     Dal dibattito in corso, per la necessaria riforma, emergono sempre e solo pochi punti. Si spera che dei numerosi altri che formano un sistema elettorale completo non scrivano i media, ma che siano tenuti nella dovuta considerazione dal legislatore. Tra i più citati è ovviamente il tema della governabilità che deve essere assicurata alla fine della tornata elettorale e, possibilmente, per l’intera legislatura. Qui le insidie, per la democrazia, non mancano. Se la sovranità appartiene veramente al popolo che la esercita, quasi esclusivamente, scegliendo i suoi rappresentati con il voto, elevate soglie di sbarramento o premi di maggioranza troppo generosi sono un vulnus alla democrazia e sicuramente materia per la Corte costituzionale.

    Certo la governabilità è indispensabile, ma non può essere ottenuta stravolgendo la volontà popolare espressa con il voto. Né si potrà pretendere che la complessità della società odierna sia rappresentata da due poli o, peggio, da due soli partiti. Perché, in pratica, a ciò conducono gli sbarramenti e i premi di maggioranza. E allora come se ne esce? Come si conciliano rappresentanza democraticamente eletta e governabilità? Intanto, direi, cominciamo a vedere come fanno i presidenti di due solidissime nazioni, Francia e USA, a governare anche senza la maggioranza nelle camere parlamentari. E’ successo molte volte e per periodi non brevi, in certi casi per intere legislature. Evidentemente il meccanismo che lo consente (e lo rende prassi normale) è insito nel sistema istituzionale e non solo nella legge elettorale.                                     
                                                                                          umuzzatti@gmail.com