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sabato 29 marzo 2025

DALLE “PICCOLE PATRIE” ALL’ EUROPA FEDERALE

Ruolo e importanza delle autonomie e delle minoranze etnico-linguistiche in Europa

di Ubaldo Muzzatti

 

Il processo di formazione delle comunità e delle istituzioni

Le comunità - grandi o piccole che siano – sono un insieme di persone più o meno omogeneo e coeso. Conseguentemente, le istituzioni, che rappresentano e governano le comunità locali, regionali, statali, agiscono per, e su, insiemi di persone (ed entro un territorio, ovviamente). La persona, elemento costitutivo di ogni comunità, è l’unica entità irripetibile e indivisibile. Per contro la comunità, e l’istituzione che la rappresenta e governa, può costituirsi e modellarsi (ampliarsi, ridursi, dividersi) in forme e dimensioni diverse. A seconda dei soggetti e degli eventi che la plasmano.

Antropologicamente, per via naturale, le comunità si formano con un processo ascendente. Che, in estrema sintesi, vede la persona (una e indivisibile) unita ad altre persone per formare la famiglia, ovvero la comunità primigenia e più coesa; poi un certo numero di famiglie formare il clan, la tribù, il villaggio; poi la comunanza dei clan, delle tribù, dei villaggi formeranno una etnia, una nazione, più o meno grande. Traslato ai giorni nostri: un insieme di persone, che vivono nello stesso luogo, costituiscono un quartiere, o un borgo; un certo numero di quartieri, o di borghi, formeranno rispettivamente una città o un paese; più città e più paesi (Comuni) una Regione; un certo numero di Regioni (o Cantoni, o Länder) lo Stato. Ovviamente, questo processo di aggregazioni successive può portare ad articolazioni diverse e a comprendere enti intermedi variamente denominati (Province, Comprensori, Distretti, Circondari, …). L’elemento caratterizzante è il processo ascendente di formazione dell’articolazione istituzionale per il governo della comunità a partire dall’individuo (cittadino), titolare di diritti inalienabili tra i quali, assieme ad altri (popolo), la sovranità. Il processo ascendente, per la formazione delle istituzioni, è alla base del federalismo ed è un modello bottom up, che dalle comunità locali, porta a quelle regionali, statali, federali.

Si contrappone al modello sopradescritto (ascendente – aggregativo – bottom up – federalista) il processo discendente – partitivo - top-down - centralista. Mediante il quale l’istituzione più grande, lo Stato (il Regno, l’Impero ed anche la Repubblica unitaria) esercita il potere di disegnare l’articolazione sottostante per il governo dei territori e delle comunità afferenti. E lo fa, appunto, con un processo che parte e cala dall’alto, top down, andando a definire Regioni (Province, Comprensori, Distretti, Circondari…) e le istituzioni locali di prossimità. Era la prassi usata dal potere assoluto acquisito - con la forza, l’astuzia, l’abilità – dai “grandi” della storia che, conquistati dei territori, ne disponevano a piacimento.

Anche questa prassi ha una origine antropologica che attiene all’ancestrale, e non ancora sopito, istinto umano alla conquista, alla sopraffazione, al desiderio di potere sulle persone e sulle cose altre. Spiace dover constatare che in molti casi, anche dopo la trasformazione dello Stato, da regno a repubblica o da dittatura a democrazia, questo abbia mantenuto l’impostazione centralistica e la prerogativa di “suddividere” il territorio creando – dall’alto con il processo discendente – l’articolazione per l’amministrazione del territorio. Per contro, si può osservare che alcune monarchie europee applicano, oggigiorno, principi e prassi federalistiche meglio e più di alcune repubbliche, tra quest’ultime figura ancora l’Italia. Mentre alcuni Regni si sono dati una struttura che, per l’autonomia riconosciuta alle partizioni interne, richiamano l’impostazione federalistica, tra questi possiamo senz’altro comprendere il Regno Unito con le sue quattro nazioni costitutive, il Belgio con le tre regioni amministrative e le tre comunità linguistiche, e in certa misura la Spagna con le sue Comunità autonome.

Alcune esperienze storiche e attuali di federalismo in Europa

In varie epoche storiche, in alcune zone limitate d’Europa, vi sono state delle esperienze di aggregazione di entità territoriali di minor dimensione per la formazione di una realtà superiore che le ricomprendeva e a cui venivano delegate delle funzioni da svolgere nell’interesse di tutti i federati, prima fra tutte la difesa dai nemici esterni, ma anche il mantenimento e lo sviluppo dei tratti caratteristici comuni: linguistici, culturali, sociali, economici. In tal senso vi sono state aggregazioni a carattere federalistico (ovviamente da contestualizzare) nella Grecia classica, nell’Etruria pre-romana, con i comuni medioevali in varie parti d’Europa.

Giusto al centro dell’Europa è posto il più classico, più longevo e probante esempio di federalismo: la Svizzera. La Repubblica svizzera è per tutti lo stato federale per antonomasia. Lo è ufficialmente dal 1848, ma già dal 1291 alcuni territori della Svizzera centrale, allora dominio asburgico, sottoscrissero il “Patto eterno confederale” proprio per contrastare lo strapotere dell’Impero. Per evoluzioni successive, prima come Confederazione (aggregazione di stati che mantengono la sovranità piena) e poi come Federazione (Unione più vincolante di stati che mantengono autonomia in determinate materie e ne delegano altre) si viene a formare la Svizzera attuale. I 26 Cantoni (stati) svizzeri, aventi ciascuno una estensione media di soli 1.588 chilometri quadrati (circa la metà delle province italiane) e una popolazione media di 328.000 abitanti (poco più della metà delle province italiane), dimostrano che è pienamente sostenibile una federazione formata da un gran numero di aderenti con dimensione contenuta. E, con ciò, di poter salvaguardare le molte peculiarità presenti all’interno della federazione. L’impostazione federale, con l’ampia autonomia in diverse materie dei singoli Cantoni, ha permesso – tra l’altro - di mantenere integre e sullo stesso piano (nonostante le diverse consistenze demografiche) le 4 comunità linguistiche ufficiali: tedesca, francese, italiana e romancia (ladina) e la protezione di almeno altre 4 parlate minoritarie (walser, lombardo, arpitano, svizzero tedesco). Allo scopo concorrono sia la Costituzione federale, sia le Costituzioni cantonali. Per esempio la Costituzione del Canton Ticino all’articolo 1 recita: «Il Cantone Ticino è una repubblica democratica di cultura e lingua italiane» e il preambolo chiarisce che «il popolo ticinese» è «fedele al compito storico di interpretare la cultura italiana nella Confederazione elvetica».

Sempre contestualizzando le situazioni e gli avvenimenti alle varie epoche in cui si sono succeduti, possiamo trovare tratti ed elementi, ancor oggi tipici del federalismo, nella millenaria storia del Patriarcato di Aquileia. In particolare nei tre secoli e mezzo (dal 1.077 al 1.420) in cui esercitò a pieno titolo anche il potere temporale su quella che era la Patria del Friuli. Infatti, come ecclesiastici i Patriarchi di Aquileia svolsero il loro magistero con grande autonomia dal Papa di Roma; come principi del Friuli e degli altri possedimenti con ancor maggiore autonomia dall’Impero (Sacro Romano Germanico) da cui pure avevano avuto l’investitura e di cui facevano parte. Nelle modalità con cui fu esercitato il potere temporale si rilevano le forme che, ovviamente aggiornate, sono di prassi negli stati federali, molto più che in quelli centralistici. In sintesi la Patrie ebbe un parlamento in cui sedeva un’ampia e articolata (circa 100) rappresentanza dei ceti e delle istituzioni di allora: nobiltà (in tutto una settantina di castellani), clero (quattordici ecclesiastici), comunità civiche (per esempio Sacile, Tolmezzo, San Vito, in tutto quattordici) a cui, dalla metà del sedicesimo secolo, si aggiunse la Contadinanza, ovvero una rappresentanza del ceto subalterno. Il Parlamento fu, a tutti gli effetti, assemblea legislativa e tribunale supremo. Un contrappeso (si direbbe ora) effettivo ed efficace al potere assoluto del Patriarca. Il Parlamento emanava le leggi, si occupava della politica estera e della difesa, della pubblica amministrazione, di tassazione e della giustizia. Il Parlamento si riuniva prevalentemente nel castello di Udine, ma anche, a rotazione, in altre sedi (Cividale, Gemona, Aviano, Sacile, e altre), dal 1231 al 1805 per 574 anni. Dunque, sino ad ora, è stato uno dei più antichi e più longevi. La Patrie ebbe una delle primissime costituzioni del mondo, promulgata dal patriarca Marquardo l’otto novembre 1366 a Sacile. Seconda per data di promulgazione alla sola Magna charta libertatum, firmata dal re d’Inghilterra nel 1215. Rispetto a quella inglese, però, la costituzione friulana assicurava un maggior ventaglio di diritti fondamentali e non esclusivamente alla nobiltà e al clero. Di fatto la Patria del Friuli era uno stato federato all’Impero ed esercitava al suo interno principi federali, quando il federalismo moderno (costituzione americana del 1787) non era ancora avviato. Per esempio evitando l’accentramento delle sedi e delle funzioni e praticando invece la rotazione delle riunioni del Parlamento; riconoscendo rappresentanza a ogni comunità e a tutto il territorio; nonché libertà di espressione alle diverse parlate, friulano, veneto, tedesco, slavo, anche nei contesti ufficiali come le riunioni del Parlamento della Patria. Riuscì a far convivere pacificamente e collaborare le genti latine, slave e germaniche, in pratica quelli che sono ancor oggi i nuclei etnolinguistici principali dell’Europa. Obiettivo che deve essere costantemente perseguito e che spesso è stato disatteso nell’Europa degli ultimi secoli e persino degli ultimi decenni.

Venendo ai giorni nostri, tra i 27 membri della UE si annoverano 24 stati unitari e 3 stati federali. Oltre alla Monarchia federale Belga, della quale si è già accennato, vi sono le repubbliche di Germania e Austria costituite rispettivamente da 16 e 9 Länder (stati). Queste due realtà sono molto importanti perché estendono alcuni principi federalistici anche ai territori interni a ciascun Länder. Infatti, al livello intermedio non troviamo enti accentrati su un capoluogo e dei territori a questi sottoposto, come nel caso delle province italiane e dei departements francesi, bensì Circondari e Distretti che sono, di fatto, federazioni di comuni, con peculiarità, problematiche e dimensioni molto simili. Nel mentre, le grandi città costituiscono un ente di pari livello ma distinto dal territorio che sono le Città extracircondariali in Germania (143 in tutto) e le Città statutarie in Austria (15).

Le Autonomie locali per il governo del territorio e delle città

È fuori dubbio che le medio-grandi città e i centri minori sparsi sul territorio siano realtà diverse per dimensione, concentrazione di popolazione, edificazione e infrastrutture, spazi, aree verdi e naturali, contenitori e contenuti. Che abbiano problematiche gestionali e amministrative differenti per molti versi, esigenze di conduzione, di cure e investimenti affatto simili. Non di meno le due realtà, città e territorio, sono indissolubili e complementari, reciprocamente indispensabili per la qualità di vita della popolazione, ovunque residente. È interesse di tutti che la città realizzi, si doti, sviluppi, organizzi, gestisca, offra i servizi, i contenitori e i contenuti che, per tipologia e dimensione, possono essere localizzati solo in un contesto urbano. Al contempo che il territorio realizzi, si doti, sviluppi, organizzi, gestisca, custodisca, quanto rende possibile la fruizione dell’immenso e insostituibile patrimonio, naturale e prodotto dall’antropizzazione, diffuso su di esso. Infine che in entrambe le realtà si attuino politiche e pratiche amministrative, di erogazione dei servizi, di investimenti specifici e, quindi, opportunamente differenziati per alcuni aspetti. Abbiamo l’esigenza di ottimizzare la gestione delle due realtà, nell’interesse di tutti, perseguendo uno sviluppo armonico e complementare. Non è la stessa cosa amministrare (nel senso omnicomprensivo del termine) una città o il territorio e non di meno abbiamo bisogno di città e comunità extraurbane gestite in modo ottimale.

Questo, che è nello spirito del federalismo, in Germania e Austria, è già realtà. Ed è di buon auspicio, per una futura estensione in tutta Europa di questi principi, che la Francia con la “Riforma territoriale”, approvata nel 2014 e in fase di realizzazione, stia abbandonando enti di stampo centralistico, quali gli Arrondissements e i Departements e stia insediando le Intercommunalités e le Communautés des Communes, enti costituiti da federazioni di Comuni che, come è noto, in Francia sono molto numerosi (35.357) e di conseguenza molto piccoli (mediamente solo 2.583 abitanti). Anche il principio della distinzione tra i grandi aggregati urbani e il territorio esterno è stato recepito con l’istituzione di 21 Metropoles con almeno 400.000 residenti, mentre per la costituzione di una Intercommunalités territoriale, dopo un primo tentativo a 5.000, la soglia minima è stata portata a 20.000.

Le esperienze innovative locali in Italia

Anche in Italia ci sono degli esempi, molto positivi, di applicazione dei principi federali alle autonomie locali. Prime, fra tutte, le Province autonome di Trento e Bolzano. In Trentino il livello intermedio è costituito dalle 16 Comunità di valle che aggregano i 217 comuni della Provincia. In Alto Adige / Südtirol i 116 comuni sono aggregati in 7 Comprensori territoriali a cui si aggiunge il Comprensorio urbano mono-comune di Bolzano. Con ciò la Provincia autonoma, ricalcando i modelli tedesco e austriaco, realizza anch’essa la distinzione tra città e territorio. Molto ben utilizzata è pure l’autonomia scolastica di cui gode la Provincia. Nelle valli di insediamento delle minoranze ladine (Gardena, Badia), per esempio, nelle scuole primarie si insegna in tre lingue: tedesco, italiano e ladino, con un metodo che va oltre il Content and Language Integrated Learning (CLIL) che prevede di insegnare qualche materia, che non sia la lingua stessa, in una lingua straniera. Infatti con il metodo altoatesino a scuola si “vive” integralmente ciascuna delle tre parlate, a cicli settimanali che si alternano. In questo modo, tutti i residenti in valle imparano stabilmente le tre lingue, tra cui la ladina. Poi dalle medie vengono aggiunte altre lingue, a partire dall’inglese. In questo modo, tutti ne parlano almeno tre e gran parte della popolazione quattro o cinque, accreditandosi come una delle comunità effettivamente più europee ed aperte. Con ciò smentendo quanti ritengono controproducente lo studio delle lingue locali.

Vi sono poi, in Italia, altre piccole ma interessanti esperienze. Tra queste la “Federazione dei Comuni del Sampierese” in provincia di Padova. In punta di diritto trattasi di un’Unione di Comuni in attuazione della Legge n. 56/2014 (Riforma Delrio). I dieci Comuni aderenti, però, oltre alla denominazione hanno introdotto i principi di una federazione utili alla miglior gestione di un ente sovracomunale omogeneo. Tra questi, la rotazione degli incarichi di vertice tra i rappresentanti dei comuni facenti parte, la distribuzione delle sedi e dei punti di erogazione dei servizi, il voto capitario e non il ponderale che favorisce sempre i comuni più popolati, l’unione tra realtà equivalenti, ovvero tra soli paesi e cittadine, riconoscendo che la città (nel loro caso Padova) è una realtà diversa.

 Prima ancora, in Friuli Venezia Giulia, c’è stata la pluridecennale esperienza della Comunità Collinare del Friuli. Dove una quindicina di Comuni, intorno a San Daniele, in assenza di normative regionali e nazionali, che ancora non c’erano, si consorziarono volontariamente per svolgere in comune una serie di attività e pianificare uno sviluppo sovracomunale. Purtroppo poi, quando le riforme furono intraprese, invece di prendere quell’ esperienza a modello per estenderla al resto del territorio, con ogni integrazione necessaria, fu praticamente destrutturata.

Il federalismo: una questione culturale

Dunque, esperienze federalistiche o, comunque di aggregazioni ascendenti e volontarie per la formazione di entità di maggiore dimensione, ce ne sono state in varie zone ed epoche della storia europea. Però solo in ambiti geografici limitati.  Invece, le esperienze e i tentativi di unificare, in toto, o buona parte del continente sono sempre state l’esito di processi di espansione, conquista e annessione del soggetto di volta in volta più forte: da Cesare a Carlo Magno, da Napoleone al penultimo sciagurato tentativo di Hitler.

Solo l’ultimo tentativo, in corso dal secondo dopoguerra, di unificare l’Europa si basa sul criterio volontario di aggregazione e quindi federalistico. Anche se uno stato federale europeo è ancora lontano e l’attuale Unione pare più allontanarsi che procedere verso il traguardo di una Repubblica federale europea. Molti sono gli ostacoli che si frappongono, ma all’origine incide soprattutto l’assenza, in molti paesi, di una cultura federale e il prevalere dei nazionalismi.  La maggior parte degli stati dell’Unione Europea, 24 su 27, sono unitari ed hanno una conoscenza ed un’esperienza dei principi federalistici limitata. E tutti sono impregnati da secoli di centralismo e unitarismo nazionali. Infatti, quasi tutti gli stati europei hanno origine dall’opera di re e imperatori, volta ad accaparrarsi dei territori, più che ad assicurare agli stessi un governo e uno sviluppo confacente alle rispettive aspirazioni. Il recente passaggio dalle monarchie alle repubbliche e dall’assolutismo alla democrazia non è ancora riuscito a incidere in profondità su questi temi; ad affermare ed applicare il principio democratico, che in teoria tutti riconoscono, dell’autodeterminazione delle comunità naturali.

Ma la Repubblica d’Europa sarà federale o non sarà. Su questo non ci sono dubbi. Nel mentre molti ancora paiono non comprendere l’enorme potenziale di uno stato federale europeo. Che non è solo economico e geopolitico sullo scacchiere internazionale, ma è anche la via per superare pacificamente e definitivamente i non pochi problemi interni che abbiamo ereditato dalla modalità con cui si sono venuti a formare gli attuali stati europei e che, qui sopra, abbiamo appena accennato. Per esempio, i confini, definiti dopo la seconda guerra mondiale, per tutta una serie di motivi (strategici, riparativi, ripartitivi tra i due blocchi, occidentale e orientale) non hanno sempre ed ovunque potuto rispettare l’aspirazione - legata a storia, geografia, usanze, lingua – delle comunità interessate. 

QUELLO CHE NON SI DICE SUGLI ENTI INTERMEDI DI AREA VASTA (NEO PROVINCE)

 

Il dibattito sulla reintroduzione di un ente intermedio (o di area vasta) da inserire tra i comuni e la regione pare finalmente decollare. In queste ultime settimane sul tema si stanno moltiplicando gli incontri, i convegni, i confronti organizzati da partiti, associazioni, altri soggetti. Gli interventi sulla stampa sono numerosi e riportano varie proposte, per lo più di dettaglio, mentre i temi di fondo sono trascurati. In ogni caso è bene che si discuta e siano in tanti a contribuire. La riforma, infatti, quale ne sia l’esito, riguarderà tutti. Bene, quindi, che non venga discussa esclusivamente “nelle segrete stanze” ma che ai decisori istituzionali giunga il contributo di un ampio e franco dibattito. Sono molte, dunque, le proposte, i suggerimenti, le richieste che vengono avanzate per l’introduzione di un ente intermedio di area vasta innovativo o semplicemente la riedizione delle vecchie province, tuttalpiù con qualche modifica nel numero e nelle attribuzioni.

Molte, però, sono le cose di cui nessuno parla pur essendo pertinenti la materia. Direi fondamentali per non precludere la possibilità di varare un “Sistema Regione – Autonomie locali” in grado di affrontare le sfide future e supportare una nuova stagione di sviluppo per tutto il territorio e le comunità che vi risiedono. Proviamo, in sintesi, ad elencare alcuni degli elementi che non sono ancora entrati nel dibattito per l’istituzione dell’ente intermedio con il rischio, quindi, che si vada a decidere senza aver preso in considerazione tutte le variabili possibili e, di conseguenza, di varare una soluzione non ottimale.

Innanzitutto bisogna (bisognava) porsi la domanda se un ente intermedio sia assolutamente necessario per lo sviluppo futuro del territorio e della comunità regionale. Nel tentare di rispondere sarà bene ricordare che le istituzioni politico-amministrative sono delle organizzazioni e queste – tutte – negli ultimi decenni hanno subito delle grandi trasformazioni, indotte dalle nuove tecnologie e dai cambiamenti culturali. Uno dei più evidenti e generalizzati è la riduzione dei livelli gerarchici e funzionali. Le organizzazioni pubbliche possono e devono beneficiare, al pari di quelle private, degli avanzamenti tecnologici ed organizzativi. Lo hanno già fatto in nord Europa. La Danimarca, per esempio, con la riforma del 2007 si è strutturata su soli tre livelli: Stato, Regioni, Comuni. Nessun ente intermedio, quindi, tra Regioni e Comuni. Molti altri stati (e tra questi l’Italia e la nostra regione) non sono ancora pronti per questa semplificazione, ma non bisognerebbe precludersi la possibilità di arrivarci in futuro. Per questo bisognerebbe che l’eventuale ente intermedio fosse compatto e omogeneo, più che vasto, tale da prefigurare, un domani, il nuovo ente di prossimità.

Storicamente, l’articolazione amministrativa italiana e francese, imperniate su province e departements, erano simili. Però, con la riforma territoriale del 2014 la Francia ha praticamente soppresso le province (mentre l’Italia le vuole reintrodurre) e istituito le Intercomunità o Comunità di comuni. Con questo la Francia abbandona l’impostazione centralistica, avviata due secoli or sono da Napoleone, e adotta il modello federalistico per la costituzione degli enti intermedi tra i comuni e le regioni. Non è cosa di poco conto.

Alcuni apertamente, altri velatamente anelano ad un riconoscimento istituzionale su base identitaria e pensano che ciò si possa concretizzare con una riedizione delle province. Nulla di più lontano dalla realtà. Alle quattro provincie soppresse non corrispondevano quattro diverse identità. L’identità friulana non è solo della ex provincia di Udine ed è riconosciuta come propria anche dalla maggioranza dei residenti nella ex provincia di Pordenone e da una buona parte di quelli della provincia di Gorizia. É impossibile far coincidere una circoscrizione amministrativa con un areale identitario unico e omogeneo. Tuttavia è opportuno e doveroso ricercare soluzioni per favorire tanto lo sviluppo socio-economico, con circoscrizioni amministrative dimensionate allo scopo, e la tutela linguistico-culturale entro ciascuna area d’insediamento. Il Belgio, dopo aver rischiato di implodere per i contrasti tra fiamminghi e valloni, con la riforma costituzionale del 1993 ha trovato una buona soluzione strutturandosi su tre regioni amministrative (Fiandre, Vallonia e Bruxelles-Capitale) e tre Comunità linguistiche non del tutto coincidenti alle prime (fiamminga, francofona e germanofona). É in pratica un’applicazione in campo istituzionale della così detta organizzazione a matrice. Un mezzo passo, in questa direzione, l’ha fatto anche il FVG con il riconoscimento delle comunità linguistiche friulana, tedesca e slovena. Ora bisognerebbe fare l’altro mezzo passo, ovvero delegare a organi rappresentativi delle tre comunità tutte le attività e risorse inerenti tutela e sviluppo delle rispettive lingue e culture. A quel punto la definizione del numero e la perimetrazione degli eventuali enti intermedi potrà essere effettuata solo in base a parametri finalizzati al perseguimento di efficienza ed efficacia nell’erogazione dei servizi, per la realizzazione delle infrastrutture e lo sviluppo socio-economico.

Da più parti, in particolare dalla montagna, è stata segnalata la specificità di certe zone e la conseguente opportunità di un’amministrazione dedicata, distinta dalle altre con cui in passato aveva condiviso il livello amministrativo intermedio. Giusta osservazione, non tutti gli ambiti hanno le stesse problematiche ed esigenze, tanto per l’ordinaria amministrazione quanto per le azioni volte a favorirne lo sviluppo. Ma dove si registrano le maggiori differenze e la conseguente opportunità che i relativi ambiti abbiano distinte amministrazioni? Senza dubbio tra i contesti fortemente urbanizzati e le aree esterne, ovvero tra le città e i territori extraurbani costellati di cittadine, paesi, borghi. Basta guardare verso Austria e Germania, per vedere efficacemente applicato il principio della separazione amministrativa tra le città maggiori e il territorio. Nella vicina Carinzia, per esempio, vi sono due Distretti urbani, costituiti dalle sole città di Klagenfurt e Villach e dieci distretti territoriali che aggregano gli altri 130 comuni.

Sono pochi esempi che dimostrano come un vero dibattito su come organizzare la regione per i prossimi decenni per supportarne lo sviluppo di tutte le sue componenti non è ancora decollato nonostante la messe di convegni, incontri, proposte, interventi. Sono troppi gli aspetti fondamentali inerenti il governo del territorio che sono del tutto ignorati. Pertanto, ove si continuasse con queste limitazioni, è plausibile che si arrivi, ancora una volta, ad una soluzione non soddisfacente.

Marzo 2025                                                                                                                                                                                                                                                                            Ubaldo Muzzatti

mercoledì 27 maggio 2020

LA RESPONSABILITA' CI SALVERA'


La responsabilità deve essere l’atteggiamento e la condizione a base dell’azione pubblica e privata.  Solo il comportamento responsabile dei singoli, dei gruppi e delle organizzazioni - sociali, politiche, istituzionali - può invertire la tendenza e creare le condizioni per una ripartenza della regione e del paese. Soprattutto ora, dopo lo shock provocato dal virus.
Qualche tempo fa sono passato da Feletto Umberto, il paese, vicino a Udine un poco fuori mano. Con il navigatore ho calcolato che dista 41 chilometri da Castelnovo del Friuli, il paese dove ho frequentato le scuole elementari e, secondo lo strumento, ci vogliono un’ora di autovettura per coprire la distanza.
Una mia maestra percorreva questa distanza con la Lambretta, negli anni Cinquanta, e allora non tutte le strade erano asfaltate. Tutti i giorni, andata e ritorno. Era puntuale, si cominciava alle otto e trenta e si finiva all’una meno un quarto, per recuperare i quindici minuti di ricreazione. In due anni d’insegnamento, mancò un solo giorno, lo ricordo bene perché ci fu una grande nevicata e, appunto, l’avvenimento della maestra che non poté arrivare. Pioveva e nevicava, allora anche più di adesso, ma lei puntuale alle otto e quindici parcheggiava la Lambretta e all’orario stabilito teneva lezione. Non si sgarrava di un minuto, né all’inizio né in chiusura né per la ricreazione.
Era una scuola in collina di due sole pluriclassi, l’edificio era isolato rispetto alle case sparse del “paese che non c’è” (Castelnovo ha solo frazioni). La direzione didattica era situata a Pinzano al Tagliamento a una decina di chilometri. Ricordo bene che il direttore veniva a visitare la scuola una sola volta l’anno. Le due maestre (si) gestivano da sole la didattica e ogni aspetto connesso. Il Comune si occupava esclusivamente dell’eventuale manutenzione dell’edificio e per la pulizia provvedeva una signora che abitava nelle vicinanze. Non si parlava ancora di bidelli o di ausiliari strutturati. Insomma, per farla breve, il tutto era sotto la responsabilità delle maestre, ognuna per le sue classi.
Quelle maestre furono veramente, totalmente ed efficacemente responsabili. Lo possono assicurare i discenti di allora. Lo furono pur non avendo controlli ravvicinati, gerarchici, funzionali, terzi o interessati. Nel nostro caso il controllo era quasi nullo, loro lo sapevano, eppure facevano tutti i giorni, per l’intero anno scolastico il loro dovere. Erano “intrinsecamente” responsabili.
 Si dice spesso che bisogna recuperare l’etica, il senso del dovere, per riannodare i fili di una società in degrado; per ridare fiducia ai cittadini soprattutto nei confronti delle istituzioni, delle amministrazioni, degli enti che costituiscono, nell’insieme, lo Stato. Ebbene, prima e più di tutto, per un vero recupero va reintrodotta la responsabilità, a tutti i livelli. Bisogna che tutti siano responsabili, nel loro lavoro, nelle loro funzioni. Bisogna che ognuno, in ogni luogo, pubblico o privato, prenda consapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti e modi di agire che ne derivano. In ogni contesto deve essere assicurata la condizione di dovere rendere conto di atti, avvenimenti e situazioni in cui si ha una parte, un ruolo. Solo così l’Italia può ripartire e rimanere agganciata al treno dell’Europa.
E prima ancora deve farlo la regione Friuli-Venezia Giulia, ove ci fu una grande assunzione di responsabilità, pubblica e privata, nella tragica occasione del terremoto e della ricostruzione negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Al tempo del Corona virus è di nuovo il momento di una generale e incondizionata assunzione di responsabilità per il rilancio del Friuli in tempi ragionevoli.
Infine, per ricordare costantemente a tutti – soprattutto ai vertici della burocrazia– il proprio ruolo, bisognerebbe eliminare la parola “dirigente” e sostituirla con “responsabile”.


giovedì 9 aprile 2020

RILANCIO ECONOMICO - E NON SOLO - COME CON IL PIANO INACASA DI FANFANI

Una delle piastrelle artistiche poste sulle case INA

Ben vengano le idee nuove, ma non bisogna trascurare i buoni esempi che, opportunamente rivisitati, potranno essere validi strumenti per il rilancio dell’economia bloccata dalla pandemia. Per il metodo molti ricordano l’efficacia del “modello Friuli”. Nel merito si auspica un “piano Marshall europeo” ma, viste le resistenze di alcuni stati membri, l’Italia farà bene a non scordare che nel dopoguerra seppe elaborare e portare a buon fine uno specifico grande piano di rilancio.
Qualche giorno fa – di necessità virtù – pedalando sulla cyclette ho acceso il televisore che è piazzato davanti. Ho “pescato”, su Rai Storia, la trasmissione “Passato e presente” di Paolo Mieli. Argomento della puntata: “Il piano Fanfani – una casa per gli italiani”. Mi ricordai di averne sentito parlare negli anni sessanta: “… abita nelle case Fanfani; costruiscono case Fanfani…”. Mieli porta avanti l’argomento con la presenza in studio di un professore di storia, tre giovani storici (studenti della materia, penso) e il ricorso a filmati, interviste, documenti. Per l’occasione vengono ricordate le circostanze, i protagonisti e i dati salienti dei “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori”, titolo delle Legge 28 febbraio 1949, n. 43.

In effetti gli elementi ricordati sono degni di nota, riassumo schematicamente quelli che più colpiscono, tra i quali alcuni che, reinterpretati, potrebbero giovare non poco per superare lo shock economico provocato dal fermo quasi totale delle attività economiche. Siamo nel ’48-49, presiede il Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, un giovane Amintore Fanfani è ministro del lavoro e della previdenza sociale. Ispirandosi – dicono – alle teorie economiche di Jhon Maynard Keynes, oltre che alla “dottrina sociale della chiesa cattolica”, Fanfani elabora e propone la legge sopracitata. Il Parlamento approva nonostante qualche riserva delle sinistre, ma non – per esempio – del sindacalista Giuseppe Di Vittorio.
Le finalità della legge emergono chiaramente dal titolo stesso. Molto interessante è lo schema di finanziamento che prevede l’intervento dello Stato, attraverso l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni INA (da cui la denominazione ufficiale “INA-casa”); le imprese (in particolari le edili coinvolte direttamente) e i lavoratori stessi mediante una piccola trattenuta in busta paga (anche di questa molti si ricorderanno). Questo schema “a tre punte”, con il coinvolgimento di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, compresa la massa dei lavoratori dipendenti, assicurò i finanziamenti necessari permettendo di investire, nei primi sette anni di attuazione della legge, 334 miliardi di lire di allora. Rinnovato per altri sette anni (il piano si chiuse nel 1963) l’investimento complessivo, del Piano, pareggiò all’incirca la quota elargita all’Italia dallo “European Recovery Program” meglio noto come piano Marshall: 1.129 miliardi di dollari.
Altro punto di forza del piano fu, come diremmo ora, la governance. L’attuazione del piano fu affidata all’INA, allora un solido ed efficace istituto assicurativo dello Stato (malamente privatizzato in seguito). Alla direzione, programmazione e controllo Fanfani chiamò l’ingegner Filiberto Guala che, come lui, gravitava nel gruppo di Dossetti e La Pira. Convincendolo a posticipare la sua vocazione: alla fine del mandato si fece frate trappista. Un ente di gestione snello, una direzione commissariale integerrima e competente – il futuro frate proveniva dal Politecnico di Torino – permisero di condurre in porto il grande piano senza le lungaggini e “gli incidenti” che hanno funestato le grandi opere recenti.
Qualche altro dato: a regime il piano edificava 2.800 unità abitative a settimana e consegnava 550 alloggi, in tutta Italia, ad altrettante famiglie di lavoratori, contribuendo non poco all’emancipazione sociale e alla ricostruzione post bellica. Complessivamente furono edificati, nei 14 anni di operatività, 2 milioni di vani, ovvero 355.000 alloggi. Furno impiegati mediamente 41.000 operai ad anno che prestarono il 10% delle giornate lavorative dell’epoca.  Senza dimenticare la valenza urbanistica dei progetti che furono curati da molti dei migliori architetti di allora, alcuni diventati poi delle “archistar”. Furono coinvolti molti altri professionisti, ingegneri, geometri, periti. Per le costruzioni, in città grandi e piccole di tutta l’Italia, furono privilegiate le piccole e medie imprese locali. In sintesi si può affermare, senza ombra di dubbio, che il piano INA-casa fu un grande progetto che conseguì tutti gli obiettivi previsti e anche di più. Non solo occupazionali ed abitativi (e quindi sociali) ma anche urbanistici ed economici in senso lato con l’avvio e la crescita di attività imprenditoriali, artigianali e delle professioni.
Ancor prima della brusca frenata, era in corso, animato da più soggetti, un dibattito sulla necessità di un grande piano di rilancio dell’economia. .   A maggior ragione, dopo quanto sta succedendo, ci sarà bisogno di piani articolati e coraggiosi per rimettere in careggiata l’economia regionale e nazionale. L’esempio qui ricordato aveva tra gli elementi che ne hanno decretato il successo alcuni che, rivisitati e adeguati ai tempi, potranno essere ancora utili. Primo fra tutti l’innovativo piano di finanziamento che fu in grado di attivare le ingenti risorse necessarie mettendo insieme quelle di un grande istituto pubblico, con quelle delle imprese coinvolte e dei lavoratori. Una nuova applicazione dello “schema Fanfani” potrebbe riguardare tanto il settore edilizio stesso (adeguamenti energetici, tecnologici, antisismici; recupero centri storici e riqualificazione periferie), quanto altri settori produttivi consolidati o emergenti.
A maggior ragione, dopo quanto sta succedendo, ci sarà bisogno di piani articolati e coraggiosi per rimettere in carreggiata l’economia regionale e nazionale. L’esempio qui ricordato aveva tra gli elementi che ne hanno decretato il successo alcuni che, rivisitati e adeguati ai tempi, potranno essere ancora utili. Primo fra tutti l’innovativo piano di finanziamento che fu in grado di attivare le ingenti risorse necessarie mettendo insieme quelle di un grande istituto pubblico, con quelle delle imprese coinvolte e dei lavoratori. Una nuova applicazione dello “schema Fanfani” potrebbe riguardare tanto il settore edilizio stesso (adeguamenti energetici, tecnologici, antisismici; recupero centri storici e riqualificazione periferie), quanto altri settori produttivi consolidati o emergenti.

martedì 31 marzo 2020

LA CINA CI E' VICINA


I cinesi amano molto l’Italia. Tutto ciò che viene dal “Bel paese”, a partire dagli italiani, li affascina, li attrae, suscita in ogni cinese interesse, rispetto, voglia di conoscere, amicizia. Questo ricordo dei miei soggiorni, per lavoro, nel grande paese asiatico.
Già qualche mese addietro, quando si dibatteva del grande progetto cinese denominato “Via della seta”, ho sentito e letto posizioni contrastanti rispetto alle reali intenzioni del governo cinese. Molti sostenevano l’opportunità di aderire al trattato – come poi si è fatto - intravedendovi grandi possibilità di commerci e scambi non solo commerciali. Altri, invece, contrastarono il progetto paventando pericoli derivanti dalle mire espansionistiche ed egemoni del grande stato asiatico. Oltre alla fronda interna, bisogna ricordare i tentativi di dissuasione – molto interessati – che operarono, nei confronti dell’Italia, alcune “potenze economiche amiche” di entrambe le sponde atlantiche. Salvo poi sottoscrivere, loro stessi, grandiosi accordi di interscambio con la Cina stessa ben più rilevanti rispetto a quelli italiani.

Ora, mentre in Italia e nel mondo imperversa la pandemia da Covid-19, la Cina (dove il contagio è partito e pare sia stato vinto) ci manda degli aiuti preziosi – mascherine, respiratori, medici – ed immediatamente riparte la polemica. Si attivano le fazioni contrapposte di chi plaude alla generosa disponibilità cinese e di chi ritiene si tratti di interventi interessati, mossi da inconfessabili secondi fini. Con qualche politico – di successo – che alza i toni sin quasi ad offendere il popolo cinese e sicuramente il suo governo. Dimentico che, in una situazione tragica, come quella che sta vivendo l’Italia in questo momento, giovano più le “nazioni interessate” che tendono la mano, di quelle “consorelle” che si disinteressano a tal punto da negare non solo l’aiuto ma persino la vendita di forniture essenziali per affrontare l’emergenza. Dimenticando anche che è lecito avere una politica estera, condotta senza armi da guerra, e buona cosa avere uno statista che la porta avanti. Tutte cose di cui avrebbero estremo bisogno tanto l’Italia, quanto l’Europa.
Ho soggiornato in Cina per lavoro (trasferimenti di know-how, realizzazione di impianti) più volte e in regioni diverse. In grandi città, come Changchun (8 milioni di abitanti) e in piccoli centri (700 mila residenti). È stata l’occasione per incontrare dirigenti politici (funzionari, commissari che sovraintendevano la realizzazione degli investimenti) dirigenti industriali, tecnici, impiegati, operai. Ciò a cavallo dello scorso secolo e di quello attuale. In tutte queste occasioni ho costantemente riscontrato sentimenti di amicizia, simpatia e apprezzamento nei nostri confronti e in tutto ciò che viene dall’Italia. Potrei al riguardo raccontare decine di aneddoti. I giovani cinesi non fanno in tempo a riconoscerti che, sorridenti, ti si rivolgono entusiasti e con la loro tipica pronuncia: “Taliano? lacimilan, lacimilan…”. Ci impieghi un poco, ma poi comprendi che si riferiscono alla squadra di calcio “A.C. Milan” che tutti all’epoca conoscevano. La televisione era l’elettrodomestico più diffuso allora, meno frigoriferi e lavatrici, ma credo – visti gli investimenti fatti anche da noi a Pordenone – abbiano recuperato negli ultimi anni.
I più anziani, invece, in occasione di qualche cena aziendale o inaugurazione di stabilimenti, ci invitavano a cantare con loro: “balacioo”. E solo quando attaccavano ti accorgevi che si trattava del canto partigiano “Bella ciao”. Anche la musica classica, operistica e popolare italiana è conosciuta ed apprezzata. Una sera eravamo a cena in un albergo. Da una sala attigua giungevano le note di musiche e canti locali. Poi all’improvviso sentimmo distintamente qualcosa di familiare, i versi di una romanza napoletana. Ci alzammo di scatto, tutti noi italiani, e ci precipitammo ad ascoltare. Cantava, meravigliosamente, una giovane cinese. E dopo quella prima ne fece altre: “O paese d’ ‘o sole”, “Torna a Surriento”, per finire con “O sole mio”. Ci unimmo al coro. Fu una serata memorabile.
Mitica fu anche una cena di addio che organizzammo con i cinesi nel laboratorio tecnologico che, essendo attrezzato di forni, piastre e becchi “Bunsen” per i test, si prestava allo scopo. Noi avevamo preparato una colossale spaghettata con le materie prime che i magazzinieri, in Italia, avevano cura di infilare nei pertugi delle parti che venivano spedite e poi recuperate dai montatori. Loro delle anatre laccate stupende. Vino, allora, poco e non gran che, si brindava “gambei! – ganbei!” con dell’ottima “pijiu” (birra). Alla fine per accompagnare il dolce (frittelle farcite con pasta di fagioli) comparvero delle bottiglie di “baijiu” la grappa locale. Uno dei cinesi lanciò la sfida: uncinò con il suo il braccio quello di Francone, il capo dei nostri montatori. “A puest tu sos fantat!”, disse solamente Francone – già artigliere di montagna – e dopo il primo ne spedì – letteralmente – altri tre sotto il tavolo al grido di “ganbej!” (salute-prosit).
Sul lavoro i cinesi, quasi tutti giovani, erano attenti e scrupolosi, con un’ottima preparazione di base, intelligentissimi. Tutto faceva intendere, già allora, che avevano intrapreso un processo di crescita in tutti i settori. Che puntualmente li ha portati all’eccellenza in molti comparti strategici. Seppure con qualche contraddizione. Io stesso, nelle zone rurali, vidi realizzare delle costruzioni (case, stalle, ricoveri?) con le canne palustri e l’argilla. Un collega più giovane, che ci è tornato solo due anni fa, mi dice che si fanno ancora, magari a poche centinaia di metri dai moderni grattacieli che crescono come i funghi.
La Cina è immensa, 1,5 miliardi di persone con consumi in crescita, una produzione esuberante e competitiva, in grado di invadere i mercati mondiali. Ma ha bisogno anche di tante cose. E cinesi amano l’Italia e i prodotti italiani. Sta a noi, ai governanti e agli imprenditori prima di tutti, trarre profitto da questa duplice valenza della realtà cinese.

venerdì 20 marzo 2020

OPEN LETTER TO GOOGLE because there is more to do to be OK


      Spett. GOOGLE sono costretto a scrivere questa lettera aperta perché non trovo altro modo per farvi comprendere una cosa giusta.                 
E semplicissima, che tutti possono comprendere, anche Voi, basterebbe che prestaste un poco di attenzione e, prima ancora, che mi deste la possibilità di spiegarmi. Anche se, a mio parere, già avete tutti gli elementi per capire e agire di conseguenza. 

Ma andiamo con ordine, schematicamente per non dilungarsi troppo:

-   -Io sono un privato cittadino, non un’azienda, un’associazione, un ente…;

-   -Anni fa, utilizzando il SW gratuito di “Blogger.com” ho creato un mio sito denominato “voce civica”;

-   -Qualche anno dopo, mediante una delle possibilità messe a disposizione da GOOGLE ho registrato un dominio in esclusiva a pagamento, questo su cui scrivo questa lettera: “vocecivica.com”;

-   -Il dominio pare sia fornito da “enom.com”, ma il canone di registrazione è gestito da GOOGLE, tramite una sua divisione (ora Google cloud team);

-   -Il pagamento del canone annuale di 10,00 USD è stato fatto sull’apposita piattaforma di Google messa a disposizione dell’amministratore del sito, nel caso io stesso;

-  -Il canone scade il 29 marzo o il 5 aprile di ogni anno (a seconda dei vari documenti; ma la piccola differenza non conta);

-   -L’anno scorso, 2019, io ho regolarmente pagato con una carta di credito ricaricabile Visa, per un anno, quindi sino al 29 marzo, o il 5 aprile, 2020;

-   -Già a gennaio 2020 sono arrivate delle mail di Google con l’invito a pagare il rinnovo della registrazione del dominio “vocecivica.com”;

-   -Essendo scaduta la Visa con cui avevo pagato negli anni precedenti, ho immesso – nell’apposito format di Google” una nuova carta di credito Visa ricaricabile e, con quella, in data 3 febbraio 2020 ho rinnovato per un anno, ovvero sino ad marzo/aprile 2021 il dominio del sito “vocecivica.com”;

-   -Il pagamento di 10,00 USD è andato a buon fine e risulta addebitato sulla mia carta di credito e accreditato a Google come risulta dal mio profilo “amministratore” alla pagina “ID profilo pagamenti 8525-5895-1017”;

-   -Per quanto sopra, provato anche dai documenti on line di Google” (e dalla mia Visa), io ho regolarmente pagato il rinnovo del dominio “vocecivica.com” sino al 28 marzo 2021 secondo Google, sino al 5 aprile 2021 secondo Enom.com (ripeto che la differenza non fa … differenza);

-   -Ma, nonostante il rinnovo sino alle date soprariportate, mi sono giunte numerose mail da parte di Enom.com e Google che mi annunciano la sospensione del dominio a marzo/aprile 2020. E di fatto sulle mie pagine “amministratore” la mia posizione risulta SOSPESA;

-   -Ho provato in tutti i modi a segnalare che il rinnovo, sino a marzo/aprile 20121 è stato pagato da me e accreditato a Google: nulla da fare Google insiste che i pagamenti non si potrebbero fare con carte di credito ricaricabili e che bisognerebbe impostare il rinnovo automatico;

-   -Cosa di cui al limite si può discutere a marzo/aprile 2021, non ora a marzo 2020 e dopo aver incassato l’importo previsto di 10,00 Usd, pari a 9,06 euro come risulta dalla contabile della mia Visa.

Se Google non corregge la sua posizione, annullando la sospensione e reintegrando pienamente il dominio “vocecivica.com” si troverà nella posizione di chi incassa un importo ma non fornisce il servizio pattuito.

Non so come sia definito e trattato questo fatto negli USA, ma in Europa ciò costituisce reato, oltre che una pessima prassi commerciale. Confido pertanto che Google provveda di conseguenza immediatamente, senza se e senza ma. “Errare humanum est, perseverare diabolicum et tertium non datur…”

Pagamneto a Google di 9,06 Euro pari a 10 USD in data 3 febbraio 2020


mercoledì 19 febbraio 2020

LA COOPERATIVA DI COMUNITA’ “Aiutati che io ti aiuto”

La cooperativa di comunità: uno strumento di sostegno
per i borghi di montagna che si stanno spopolando

Succiso è un piccolo borgo sull’Appennino Tosco-Emiliano in provincia di Reggio Emilia. Si trova ad un’ altitudine di 980 metri sul livello del mare e conta 65 abitanti. E’ una frazione del comune di Ventasso, costituito nel 2016 a seguito della fusione di due comuni con poco meno di mille residenti e altri due che di abitanti ne contavano poco di più e che già collaboravano nella Unione dei comuni dell’alto Appennino reggiano (e anche questo dovrebbe dire qualcosa a quanti faticano a individuare un nuovo modello di governo del territorio).

Nel 1991, a Succiso, chiusero in rapida successione l’ultimo bar e il solo negozio di alimentari che vi era. Venuti a mancare i soli servizi e punti di aggregazione rimasti, per il piccolo borgo si profilava il tracollo definitivo, con l’abbandono degli ultimi resistenti… pardon residenti. Fu allora che i “ragazzi” della Pro loco si rimboccarono le maniche e costituirono la “Cooperativa Valle dei cavalieri”, dal nome dell’area geografica in cui si trova Succiso. Non una cooperativa di consumo, non di produzione, non di credito, non di servizi, non solo sociale, ma di “tutto un poco”; di quello che serviva alla sopravvivenza e al rilancio della piccola comunità.

Un po’ alla volta hanno riaperto il negozio, il bar, un ristorante, un forno, un agriturismo; avviato allevamenti, produzioni di formaggi, latticini e salumi; promosso e sostenuto attività sociali, di lavoro, manutenzione territorio, cultura, attività didattiche, sportive e del tempo libero; avviato servizi di trasporto locale, ritiro e recapito (merci, posta, farmaci). Essendo in pochi hanno dovuto e saputo sfruttare al massimo la flessibilità e l’eccletticità di ciascuno, talché ognuno dei soci e lavoratori ricopre almeno tre o quattro ruoli e ha dovuto imparare altrettanti mestieri. Succede così che, per esempio, chi prima dell’alba sforna il pane, al mattino guida il pulmino per il trasporto degli studenti e degli anziani ove sono scuole e servizi sanitari, al ritorno porta in paese merci, la posta e i farmaci, provvedendo alla distribuzione, poi magari alla sera è di turno al bar o al ristorante. Così per tutti gli altri. La cooperativa festeggerà tra poco i 30 anni di attività; ora ha 55 soci, praticamente l’intero paese, 7 dipendenti fissi e tanti collaboratori a tempo parziale. Ed è un modello studiato in tutto il modo! Non a caso sono venuti a Succiso da Canada, Stati Uniti, Giappone, Corea e altri paesi. Meno dall’Italia (come sempre purtroppo) e una normativa nazionale ancora non c’è, vi hanno provveduto, bensì, alcune regioni a partire dall’ Emilia Romagna. 

Senza nemmeno averne la consapevolezza, i “ragazzi della Pro” che non si rassegnarono ad abbandonare il loro borgo e vederlo morire, hanno inventato la Cooperativa di Comunità, una nuova forma di impresa; un modello di innovazione economica e sociale dove i cittadini sono produttori e fruitori di beni e servizi,  che crea sinergia e coesione in una comunità, mettendo a sistema le attività di singoli cittadini, imprese, associazioni e istituzioni, rispondendo così ad esigenze plurime di mutualità, con l ‘obiettivo di produrre vantaggi a favore della comunità alla quale i soci promotori appartengono. E ciò viene perseguito attraverso la produzione di beni e servizi per incidere in modo stabile su aspetti fondamentali della qualità della vita sociale ed economica della comunità.

La prima Cooperativa di Comunità d’Italia non ha solamente salvato il borgo montano di Succiso, lo ha rilanciato e ne ha fatto un modello, studiato ed esportato in tutto il mondo. Cooperativa Valle Dei Cavalieri: un nome che ricorda quello di una favola. Effettivamente in questa storia ci sono tutti gli ingredienti di una favola a lieto fine. Che speriamo possa ripetersi in altre valli, soprattutto là dove ci sono dei borghi che si stanno spopolando: praticamente tutta l'area montana, tranne le perle turistiche. Per questi territori si dovrebbe predisporre, prima ancora dei sostegni economici, degli strumenti di formazione, di stimolo e assistenza perché i residenti costituiscano e sviluppino le Cooperative di Comunità.  Lanciando un messaggio chiaro: “Aiutatevi che io vi aiuto”.

domenica 2 febbraio 2020


UNA LEZIONE DI POLITICA ECONOMICA TERRITORIALE


Tra vigne, meleti, spa e resort

Ubaldo Muzzatti  -  30 gennaio 2020
Politica – Economia

Vigneti Tra Caldaro e Appiano (Bolzano)

Con l’ingegnere partivamo in auto al pomeriggio per essere su in serata e pienamente operativi il mattino dopo. Meta della trasferta l’Alto Adige, tra Caldaro e Appiano. Qui in mezzo alle vigne e ai meleti, tenuti che è una meraviglia, era insediata l’azienda per la quale stavamo lavorando in qualità di consulenti di organizzazione industriale. Si pernottava in un alberghetto che, ufficialmente, si fregiava di due sole stelle ma con struttura, confort e servizio di ottimo livello che in molte altre località non si trovano in hotel di prima categoria. Al mattino la colazione era un tripudio di delicatessen locali e fatte in casa. La scelta era smisurata, anche nei periodi di bassa stagione, quando io e l’ingegnere eravamo tra i pochi clienti. Naturalmente l’edificio e tutto l’arredamento erano tipicamente tirolesi. In mezzo a tanto legno, usato con sapienza, spiccava sul banco della reception il computer. Erano i tempi in cui questo device faceva le prime apparizioni nelle medie e grandi aziende industriali, mentre nelle piccole, nelle attività artigianali e commerciali, almeno da noi, era ancora un oggetto poco conosciuto.
Al mattino raggiungevamo lo stabilimento. Passando in mezzo ai vigneti vedevamo già i coltivatori all’opera. Durante la fase vegetativa della vite, in uno spiazzo lungo la strada, ove era posizionato l’apposito impianto, avveniva il riempimento delle cisterne irroratrici per i trattamenti. Sovraintendeva l’operazione un tecnico della direzione provinciale agricoltura. Tutti i coltivatori della zona affluivano con le botti trainate dal trattore, esibivano al tecnico provinciale un cartellino con i dati delle rispettive coltivazioni e, in base a questi, venivano riforniti della giusta quantità e tipologia di miscela pronta all’uso, non senza aver tarato l’impianto e gli ugelli di aspersione. Credo che molti si siano posti la domanda: “E’ possibile che tutti gli agricoltori sappiano scegliere, dosare e usare anticrittogamici, pesticidi, diserbanti, concimi e quant’altro? Non sarà che alcuni padroneggiano poco queste sostanze, con i rischi conseguenti per sé e soprattutto per i consumatori?”. Nella provincia autonoma di Bolzano hanno dato una risposta concreta, generalizzata e preventiva a questo dubbio.
Lo stabilimento era costituito da una costruzione in pannelli prefabbricati, come se ne vedono tanti nelle nostre zone industriali. Ben fatto e ben tenuto ma, in zona pedemontana, non lontano dal lago di Caldaro, in mezzo alle vigne, non lontano dai tipici insediamenti montani, non si può dire che fosse bello. Non di meno l’attività andava bene. Bisognava ampliare e a tal scopo era stata presentata domanda di concessione edilizia. Passavano i mesi e, a dispetto del noto efficientismo locale, il permesso a costruire non arrivava, nonostante ripetuti solleciti. Finché un giorno il titolare sbottando disse: “Venite con me, ho chiesto un incontro alla Direzione competente in Provincia”. Ci presentammo dunque negli uffici provinciali ed esponemmo il caso, prospettando l’esigenza di ampliare gli spazi produttivi; sottolineando i benefici occupazionali che ne sarebbero derivati. L’alto funzionario ci ascoltò con attenzione ma senza entusiasmo. Quando venne il suo turno, fermo e pacato, ci ricordò che la Provincia Autonoma di Bolzano aveva una precisa e consolidata politica economica di sviluppo basata su due filiere: quella agro alimentare e quella del turismo. Purtroppo il progetto presentato non rientrava in quelli individuati dalla politica di sviluppo del territorio. Da qui la mancata risposta e il probabile rigetto della domanda. “Per quel luogo – concluse sorridendo – presentate, invece, una domanda per la realizzazione di una spa, un resort, che ben si inseriscono nel contesto, e sarà evasa immediatamente”.

Centro benessere di Naturno in Val Venosta (BZ)
Son tornato di recente in Alto Adige, a Merano, in Val Venosta e in Val Passiria. Visti i centri termali, le spa in quasi tutti gli alberghi; visto lo straordinario meleto della Venosta; i masi e gli allevamenti della Passiria; le aziende lattiero casearie, si può star certi che la politica economica e di sviluppo di quel territorio si basa ancora sulle due filiere individuate e sostenute coerentemente dalla amministrazione provinciale.
Non è detto che altri territori, altre regioni possano / debbano individuare e sostenere quelle stesse filiere o solo quelle. Ma l’esempio citato prova che anche una regione, soprattutto se autonoma, può e deve individuare una politica economica / industriale e perseguirla con coerenza. Evitando di disperdere le poche risorse disponibili in mille rivoli e con continui cambi di rotta.

martedì 18 aprile 2017

CITTA' e TERRITORIO

Una nuova articolazione amministrativa per sviluppare e valorizzare armonicamente
realtà complementari indissolubili, ma con strutture, problematiche ed esigenze diverse

In quasi tutto il mondo, gli abitanti risiedono in parte nelle medie e grandi città e in parte in cittadine, paesi e villaggi sparsi sul territorio. In alcune regioni, soprattutto ove presenti le metropoli, prevalgono i cittadini, in altre sono più numerosi i residenti sul territorio.
In Friuli Venezia Giulia, per esempio, ci sono poche città e vi risiede meno di un terzo della popolazione. Oltre due terzi, invece, risiedono nelle cittadine, nei paesi e nei borghi del territorio. Semplificando, ma non ci si discosta dalla realtà, possiamo considerare:
  • ·  città, i tre (ex?) capoluoghi di provincia e il capoluogo regionale;

·       territorio, le cittadine, i paesi, villaggi e borghi dei comuni non capoluogo.
Stabilito, schematicamente, quali sono le città e cos’è il territorio, è indubbio che si tratti di realtà:
o   diverse per dimensione, concentrazione di popolazione, edificazione e infrastrutture; spazi, aree verdi e naturali, contenitori e contenuti, …;
o   con problematiche gestionali e amministrative differenti per molti versi;
o   con esigenze di conduzione, di cure e investimenti affatto simili;
o   persino atteggiamenti e mentalità dei residenti, pur formati dagli stessi curricola scolastici e distratti dagli stessi media (televisione in primis), palesano qualche differenza.
Non di meno le due realtà, città e territorio, sono indissolubili e complementari, reciprocamente indispensabili per la qualità di vita di tutta la popolazione.
E’ interesse di tutti (ovunque residenti) che:
·       la città realizzi, si doti, sviluppi, organizzi, gestisca, offra, …, i servizi, i contenitori e i contenuti che possono essere localizzati solo in un contesto urbano di una certa dimensione…;
·       il territorio realizzi, si doti, sviluppi, organizzi, gestisca, custodisca, …, quanto rende possibile la fruizione dell’immenso e insostituibile patrimonio, naturale e antropizzato, diffuso...;
·    in entrambe le realtà si attuino politiche e pratiche amministrative, di erogazione dei servizi, di investimenti e gestionali specifici e, quindi, opportunamente differenziati.
Non è la stessa cosa amministrare una città o il territorio e pure abbiamo bisogno di città e comunità extraurbane gestite entrambe in modo ottimale.
Abbiamo l’esigenza di ottimizzare la gestione delle due realtà, nell’interesse di tutti, perseguendo uno sviluppo armonico e complementare.
In alcune regioni europee ciò è realtà. A queste bisogna guardare per adottare adattando.

RAPPORTO AMMINISTRATIVO TRA CITTA’ E TERRITORIO, DUE MODELLI BASE
Non bisogna farsi distrarre dalle infinite varianti possibili. Il rapporto istituzionale tra la città e il territorio ha due soli modelli base:
-         il modello centralistico (franco-napoleonico) accentrato su un capoluogo, al quale il territorio è sottoposto, sino a perdere persino la sua denominazione, per assumere quella della città. E’ importante ricordare che, con la “Grande riforma territoriale” del 2014, voluta dal presidente Hollande, la Francia stessa sta abbandonando il modello centralistico (soppressione dei consigli provinciali entro il 2020)  e ha introdotto le “intercomunalità” e le “comunità di comuni” istituzioni che si rifanno al modello alternativo  descritto qui sotto;
-   il modello federalistico (renano-danubbiano) che pone sullo stesso piano le comunità grandi e piccole; realizza l’ente di maggiore dimensione con la federazione degli enti minori che lo costituiscono; non sottopone il territorio alla città, riconoscendo necessaria la distinzione tra i grandi centri urbani e i centri minori.

Il modello centralistico tende inevitabilmente ad accentrare le risorse e le attenzioni nel capoluogo, con un doppio esito negativo:
-     abbandono, spopolamento, depauperamento del territorio; distruzione di valore (patrimonio abitativo, infrastrutturale e culturale abbandonato);
-       inurbamento eccessivo e repentino della popolazione, espansione delle periferie e scadimento della città e della qualità di vita (inquinamento, traffico, rumore); duplicazione dei costi (edificazione e infrastrutturazione in sostituzione di quanto abbandonato).
Questi fenomeni sono stati particolarmente marcati nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia; molto più che nella regione ordinaria Veneto, per esempio.
Il territorio, dalla montagna alla bassa friulana, dai borghi alle cittadine già fulcro del policentrismo regionale (Tolmezzo, Gemona, Cervignano, Spilimbergo, Maniago, …) ha avuto scarse attenzioni e poche risorse.
E i risultati si vedono! Basta guardare gli andamenti demografici dei comuni del territorio. Lo spopolamento – si badi bene – è l’effetto (delle disattenzioni) e non la causa del mancato sviluppo. Cui fa riscontro la caotica espansione delle città regionali. Grandi periferie senza pregio cingono d’assedio quelli che erano splendidi centri urbani, a misura d’uomo.

UN MODELLO FEDERALISTICO PER L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI LOCALI
E’il modello vigente (con pochissime differenze sostanziali) in Germania, Svizzera, Austria, Province Autonome di Trento e Bolzano. Posto che come ovunque il Comune è l’istituzione di base questo modello prevede che l’ente immediatamente superiore (intermedio tra comune e regione/provincia/land/cantone):
·  abbia caratteristiche di omogeneità geo-orografiche, socio-economiche, storico-culturali;
·  abbia un’ampiezza sufficiente per erogare servizi e pianificare sviluppo e investimenti;
·       sia costituito da un’aggregazione di comuni con prerogative federalistiche (delega di funzioni e non cessione di competenze; pari dignità degli aderenti; …)
·       sia costituito tra “pari” ovvero operando la separazione dei grandi centri urbani e non sottoponendo a questi i territori circostanti;
·    sia collegio per l’elezione dell’ente superiore, per la certezza della rappresentanza in esso;
·       goda di autonomia e reale facoltà di scelta nelle materie assegnate;
·   sia finanziato con parametri certi, in base a popolazione residente, estensione territoriale, imposte raccolte, singolarmente o in combinazione, secondo i capitoli di spesa.
Questa organizzazione degli enti locali è stata il fattore determinante (anche se non unico) dell’armonico sviluppo riscontrabile nei paesi e province citati. Laddove i fenomeni di depauperamento - evidenti in vaste porzioni del FVG - non ci sono stati.

ADOTTARE, ADATTANDO, IL MODELLO FEDERALISTICO “RENANO-DANUBBIANO”
La regione FVG è molto complessa, per nulla omogenea, ricca di diversità. Non di meno, anzi a maggior ragione, il Sistema Regione – Autonomie locali deve essere: adeguato, efficace, efficiente, equivalente, sostenibile, affidabile, introducibile, condiviso.
Questi requisiti, tenuto conto della complessità detta, possono essere assicurati solo da un’organizzazione di tipo federalistico, lungamente sperimentata e affinata nel tempo con una serie di ritocchi: IL MODELLO RENANO – DANUBBIANO.
In sintesi l’introduzione del modello “renano-danubbiano” in Regione prevede:
-  la costituzione di aggregazioni di comuni territoriali compatte e omogenee (da 20 a 25);
-   il riconoscimento di 4/5 città extraterritoriali con le competenze delle aggregazioni;
-  la fusione di comuni esclusivamente su base volontaria e l’assenso di ciascuno;
- la costituzione volontaria di sovra-ambiti di scopo, per la gestione delle problematiche specifiche comuni a più aggregazioni, anche non contigue.

Le 4 città extraterritoriali, avranno le medesime competenze delle aggregazioni, in pratica saranno un ente intermedio monocomunale (come le città di Germania e Austria e Bolzano stessa); sindaco e giunta, avranno – oltre che i poteri comunali –quelli del presidente e della giunta delle aggregazioni. Per quanto sopra gli enti intermedi risulteranno dalla somma delle aggregazioni territoriali e delle città extraterritoriali: 24-29.
La compresenza di aggregazioni territoriali, città extraterritoriali e sovra-ambiti di scopo prefigura una forma di organizzazione a matrice, l’unica che permette di gestire efficacemente la complessa situazione del Friuli Venezia Giulia, senza sacrificare alcune comunità e porzioni di territorio; in essenza, senza ledere i principi della democrazia.


IL MODELLO APPLICATO AL FRIULI OCCIDENTALE

L’ipotesi di base prevede di partire dalle aggregazioni storicamente riconosciute e condivise dalla popolazione residente: i mandamenti; tenendo conto anche dei mutamenti, socio-economici e demografici, avvenuti negli ultimi decenni:
·       aggregazione dei comuni dell’Azzanese (del Sile)
·       aggregazione dei comuni del Maniaghese (delle Dolomiti friulane)
·       aggregazione dei comuni del Sacilese (del Livenza)
·       aggregazione dei comuni del Sanvitese (della destra Tagliamento)
·       aggregazione dei comuni dello Spilimberghese (delle Prealpi friulane)
o   Città di Pordenone (ente intermedio mono comunale, come Bolzano)
 in alternativa:
o Aggregazione del Noncello (a 3: Pordenone-Cordenons-Porcia, come Trento)
Ovviamente si può e si deve ragionare su possibili aggiustamenti e alternative ma motivate e … ragionevoli. In ogni modo, nei casi dibattuti la parola va ai cittadini che decidono con referendum. Questa, che tocca il senso di appartenenza di ciascuno, non è materia di delega in bianco!