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mercoledì 27 maggio 2020

LA RESPONSABILITA' CI SALVERA'


La responsabilità deve essere l’atteggiamento e la condizione a base dell’azione pubblica e privata.  Solo il comportamento responsabile dei singoli, dei gruppi e delle organizzazioni - sociali, politiche, istituzionali - può invertire la tendenza e creare le condizioni per una ripartenza della regione e del paese. Soprattutto ora, dopo lo shock provocato dal virus.
Qualche tempo fa sono passato da Feletto Umberto, il paese, vicino a Udine un poco fuori mano. Con il navigatore ho calcolato che dista 41 chilometri da Castelnovo del Friuli, il paese dove ho frequentato le scuole elementari e, secondo lo strumento, ci vogliono un’ora di autovettura per coprire la distanza.
Una mia maestra percorreva questa distanza con la Lambretta, negli anni Cinquanta, e allora non tutte le strade erano asfaltate. Tutti i giorni, andata e ritorno. Era puntuale, si cominciava alle otto e trenta e si finiva all’una meno un quarto, per recuperare i quindici minuti di ricreazione. In due anni d’insegnamento, mancò un solo giorno, lo ricordo bene perché ci fu una grande nevicata e, appunto, l’avvenimento della maestra che non poté arrivare. Pioveva e nevicava, allora anche più di adesso, ma lei puntuale alle otto e quindici parcheggiava la Lambretta e all’orario stabilito teneva lezione. Non si sgarrava di un minuto, né all’inizio né in chiusura né per la ricreazione.
Era una scuola in collina di due sole pluriclassi, l’edificio era isolato rispetto alle case sparse del “paese che non c’è” (Castelnovo ha solo frazioni). La direzione didattica era situata a Pinzano al Tagliamento a una decina di chilometri. Ricordo bene che il direttore veniva a visitare la scuola una sola volta l’anno. Le due maestre (si) gestivano da sole la didattica e ogni aspetto connesso. Il Comune si occupava esclusivamente dell’eventuale manutenzione dell’edificio e per la pulizia provvedeva una signora che abitava nelle vicinanze. Non si parlava ancora di bidelli o di ausiliari strutturati. Insomma, per farla breve, il tutto era sotto la responsabilità delle maestre, ognuna per le sue classi.
Quelle maestre furono veramente, totalmente ed efficacemente responsabili. Lo possono assicurare i discenti di allora. Lo furono pur non avendo controlli ravvicinati, gerarchici, funzionali, terzi o interessati. Nel nostro caso il controllo era quasi nullo, loro lo sapevano, eppure facevano tutti i giorni, per l’intero anno scolastico il loro dovere. Erano “intrinsecamente” responsabili.
 Si dice spesso che bisogna recuperare l’etica, il senso del dovere, per riannodare i fili di una società in degrado; per ridare fiducia ai cittadini soprattutto nei confronti delle istituzioni, delle amministrazioni, degli enti che costituiscono, nell’insieme, lo Stato. Ebbene, prima e più di tutto, per un vero recupero va reintrodotta la responsabilità, a tutti i livelli. Bisogna che tutti siano responsabili, nel loro lavoro, nelle loro funzioni. Bisogna che ognuno, in ogni luogo, pubblico o privato, prenda consapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti e modi di agire che ne derivano. In ogni contesto deve essere assicurata la condizione di dovere rendere conto di atti, avvenimenti e situazioni in cui si ha una parte, un ruolo. Solo così l’Italia può ripartire e rimanere agganciata al treno dell’Europa.
E prima ancora deve farlo la regione Friuli-Venezia Giulia, ove ci fu una grande assunzione di responsabilità, pubblica e privata, nella tragica occasione del terremoto e della ricostruzione negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Al tempo del Corona virus è di nuovo il momento di una generale e incondizionata assunzione di responsabilità per il rilancio del Friuli in tempi ragionevoli.
Infine, per ricordare costantemente a tutti – soprattutto ai vertici della burocrazia– il proprio ruolo, bisognerebbe eliminare la parola “dirigente” e sostituirla con “responsabile”.


giovedì 9 aprile 2020

RILANCIO ECONOMICO - E NON SOLO - COME CON IL PIANO INACASA DI FANFANI

Una delle piastrelle artistiche poste sulle case INA

Ben vengano le idee nuove, ma non bisogna trascurare i buoni esempi che, opportunamente rivisitati, potranno essere validi strumenti per il rilancio dell’economia bloccata dalla pandemia. Per il metodo molti ricordano l’efficacia del “modello Friuli”. Nel merito si auspica un “piano Marshall europeo” ma, viste le resistenze di alcuni stati membri, l’Italia farà bene a non scordare che nel dopoguerra seppe elaborare e portare a buon fine uno specifico grande piano di rilancio.
Qualche giorno fa – di necessità virtù – pedalando sulla cyclette ho acceso il televisore che è piazzato davanti. Ho “pescato”, su Rai Storia, la trasmissione “Passato e presente” di Paolo Mieli. Argomento della puntata: “Il piano Fanfani – una casa per gli italiani”. Mi ricordai di averne sentito parlare negli anni sessanta: “… abita nelle case Fanfani; costruiscono case Fanfani…”. Mieli porta avanti l’argomento con la presenza in studio di un professore di storia, tre giovani storici (studenti della materia, penso) e il ricorso a filmati, interviste, documenti. Per l’occasione vengono ricordate le circostanze, i protagonisti e i dati salienti dei “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori”, titolo delle Legge 28 febbraio 1949, n. 43.

In effetti gli elementi ricordati sono degni di nota, riassumo schematicamente quelli che più colpiscono, tra i quali alcuni che, reinterpretati, potrebbero giovare non poco per superare lo shock economico provocato dal fermo quasi totale delle attività economiche. Siamo nel ’48-49, presiede il Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, un giovane Amintore Fanfani è ministro del lavoro e della previdenza sociale. Ispirandosi – dicono – alle teorie economiche di Jhon Maynard Keynes, oltre che alla “dottrina sociale della chiesa cattolica”, Fanfani elabora e propone la legge sopracitata. Il Parlamento approva nonostante qualche riserva delle sinistre, ma non – per esempio – del sindacalista Giuseppe Di Vittorio.
Le finalità della legge emergono chiaramente dal titolo stesso. Molto interessante è lo schema di finanziamento che prevede l’intervento dello Stato, attraverso l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni INA (da cui la denominazione ufficiale “INA-casa”); le imprese (in particolari le edili coinvolte direttamente) e i lavoratori stessi mediante una piccola trattenuta in busta paga (anche di questa molti si ricorderanno). Questo schema “a tre punte”, con il coinvolgimento di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, compresa la massa dei lavoratori dipendenti, assicurò i finanziamenti necessari permettendo di investire, nei primi sette anni di attuazione della legge, 334 miliardi di lire di allora. Rinnovato per altri sette anni (il piano si chiuse nel 1963) l’investimento complessivo, del Piano, pareggiò all’incirca la quota elargita all’Italia dallo “European Recovery Program” meglio noto come piano Marshall: 1.129 miliardi di dollari.
Altro punto di forza del piano fu, come diremmo ora, la governance. L’attuazione del piano fu affidata all’INA, allora un solido ed efficace istituto assicurativo dello Stato (malamente privatizzato in seguito). Alla direzione, programmazione e controllo Fanfani chiamò l’ingegner Filiberto Guala che, come lui, gravitava nel gruppo di Dossetti e La Pira. Convincendolo a posticipare la sua vocazione: alla fine del mandato si fece frate trappista. Un ente di gestione snello, una direzione commissariale integerrima e competente – il futuro frate proveniva dal Politecnico di Torino – permisero di condurre in porto il grande piano senza le lungaggini e “gli incidenti” che hanno funestato le grandi opere recenti.
Qualche altro dato: a regime il piano edificava 2.800 unità abitative a settimana e consegnava 550 alloggi, in tutta Italia, ad altrettante famiglie di lavoratori, contribuendo non poco all’emancipazione sociale e alla ricostruzione post bellica. Complessivamente furono edificati, nei 14 anni di operatività, 2 milioni di vani, ovvero 355.000 alloggi. Furno impiegati mediamente 41.000 operai ad anno che prestarono il 10% delle giornate lavorative dell’epoca.  Senza dimenticare la valenza urbanistica dei progetti che furono curati da molti dei migliori architetti di allora, alcuni diventati poi delle “archistar”. Furono coinvolti molti altri professionisti, ingegneri, geometri, periti. Per le costruzioni, in città grandi e piccole di tutta l’Italia, furono privilegiate le piccole e medie imprese locali. In sintesi si può affermare, senza ombra di dubbio, che il piano INA-casa fu un grande progetto che conseguì tutti gli obiettivi previsti e anche di più. Non solo occupazionali ed abitativi (e quindi sociali) ma anche urbanistici ed economici in senso lato con l’avvio e la crescita di attività imprenditoriali, artigianali e delle professioni.
Ancor prima della brusca frenata, era in corso, animato da più soggetti, un dibattito sulla necessità di un grande piano di rilancio dell’economia. .   A maggior ragione, dopo quanto sta succedendo, ci sarà bisogno di piani articolati e coraggiosi per rimettere in careggiata l’economia regionale e nazionale. L’esempio qui ricordato aveva tra gli elementi che ne hanno decretato il successo alcuni che, rivisitati e adeguati ai tempi, potranno essere ancora utili. Primo fra tutti l’innovativo piano di finanziamento che fu in grado di attivare le ingenti risorse necessarie mettendo insieme quelle di un grande istituto pubblico, con quelle delle imprese coinvolte e dei lavoratori. Una nuova applicazione dello “schema Fanfani” potrebbe riguardare tanto il settore edilizio stesso (adeguamenti energetici, tecnologici, antisismici; recupero centri storici e riqualificazione periferie), quanto altri settori produttivi consolidati o emergenti.
A maggior ragione, dopo quanto sta succedendo, ci sarà bisogno di piani articolati e coraggiosi per rimettere in carreggiata l’economia regionale e nazionale. L’esempio qui ricordato aveva tra gli elementi che ne hanno decretato il successo alcuni che, rivisitati e adeguati ai tempi, potranno essere ancora utili. Primo fra tutti l’innovativo piano di finanziamento che fu in grado di attivare le ingenti risorse necessarie mettendo insieme quelle di un grande istituto pubblico, con quelle delle imprese coinvolte e dei lavoratori. Una nuova applicazione dello “schema Fanfani” potrebbe riguardare tanto il settore edilizio stesso (adeguamenti energetici, tecnologici, antisismici; recupero centri storici e riqualificazione periferie), quanto altri settori produttivi consolidati o emergenti.

martedì 31 marzo 2020

LA CINA CI E' VICINA


I cinesi amano molto l’Italia. Tutto ciò che viene dal “Bel paese”, a partire dagli italiani, li affascina, li attrae, suscita in ogni cinese interesse, rispetto, voglia di conoscere, amicizia. Questo ricordo dei miei soggiorni, per lavoro, nel grande paese asiatico.
Già qualche mese addietro, quando si dibatteva del grande progetto cinese denominato “Via della seta”, ho sentito e letto posizioni contrastanti rispetto alle reali intenzioni del governo cinese. Molti sostenevano l’opportunità di aderire al trattato – come poi si è fatto - intravedendovi grandi possibilità di commerci e scambi non solo commerciali. Altri, invece, contrastarono il progetto paventando pericoli derivanti dalle mire espansionistiche ed egemoni del grande stato asiatico. Oltre alla fronda interna, bisogna ricordare i tentativi di dissuasione – molto interessati – che operarono, nei confronti dell’Italia, alcune “potenze economiche amiche” di entrambe le sponde atlantiche. Salvo poi sottoscrivere, loro stessi, grandiosi accordi di interscambio con la Cina stessa ben più rilevanti rispetto a quelli italiani.

Ora, mentre in Italia e nel mondo imperversa la pandemia da Covid-19, la Cina (dove il contagio è partito e pare sia stato vinto) ci manda degli aiuti preziosi – mascherine, respiratori, medici – ed immediatamente riparte la polemica. Si attivano le fazioni contrapposte di chi plaude alla generosa disponibilità cinese e di chi ritiene si tratti di interventi interessati, mossi da inconfessabili secondi fini. Con qualche politico – di successo – che alza i toni sin quasi ad offendere il popolo cinese e sicuramente il suo governo. Dimentico che, in una situazione tragica, come quella che sta vivendo l’Italia in questo momento, giovano più le “nazioni interessate” che tendono la mano, di quelle “consorelle” che si disinteressano a tal punto da negare non solo l’aiuto ma persino la vendita di forniture essenziali per affrontare l’emergenza. Dimenticando anche che è lecito avere una politica estera, condotta senza armi da guerra, e buona cosa avere uno statista che la porta avanti. Tutte cose di cui avrebbero estremo bisogno tanto l’Italia, quanto l’Europa.
Ho soggiornato in Cina per lavoro (trasferimenti di know-how, realizzazione di impianti) più volte e in regioni diverse. In grandi città, come Changchun (8 milioni di abitanti) e in piccoli centri (700 mila residenti). È stata l’occasione per incontrare dirigenti politici (funzionari, commissari che sovraintendevano la realizzazione degli investimenti) dirigenti industriali, tecnici, impiegati, operai. Ciò a cavallo dello scorso secolo e di quello attuale. In tutte queste occasioni ho costantemente riscontrato sentimenti di amicizia, simpatia e apprezzamento nei nostri confronti e in tutto ciò che viene dall’Italia. Potrei al riguardo raccontare decine di aneddoti. I giovani cinesi non fanno in tempo a riconoscerti che, sorridenti, ti si rivolgono entusiasti e con la loro tipica pronuncia: “Taliano? lacimilan, lacimilan…”. Ci impieghi un poco, ma poi comprendi che si riferiscono alla squadra di calcio “A.C. Milan” che tutti all’epoca conoscevano. La televisione era l’elettrodomestico più diffuso allora, meno frigoriferi e lavatrici, ma credo – visti gli investimenti fatti anche da noi a Pordenone – abbiano recuperato negli ultimi anni.
I più anziani, invece, in occasione di qualche cena aziendale o inaugurazione di stabilimenti, ci invitavano a cantare con loro: “balacioo”. E solo quando attaccavano ti accorgevi che si trattava del canto partigiano “Bella ciao”. Anche la musica classica, operistica e popolare italiana è conosciuta ed apprezzata. Una sera eravamo a cena in un albergo. Da una sala attigua giungevano le note di musiche e canti locali. Poi all’improvviso sentimmo distintamente qualcosa di familiare, i versi di una romanza napoletana. Ci alzammo di scatto, tutti noi italiani, e ci precipitammo ad ascoltare. Cantava, meravigliosamente, una giovane cinese. E dopo quella prima ne fece altre: “O paese d’ ‘o sole”, “Torna a Surriento”, per finire con “O sole mio”. Ci unimmo al coro. Fu una serata memorabile.
Mitica fu anche una cena di addio che organizzammo con i cinesi nel laboratorio tecnologico che, essendo attrezzato di forni, piastre e becchi “Bunsen” per i test, si prestava allo scopo. Noi avevamo preparato una colossale spaghettata con le materie prime che i magazzinieri, in Italia, avevano cura di infilare nei pertugi delle parti che venivano spedite e poi recuperate dai montatori. Loro delle anatre laccate stupende. Vino, allora, poco e non gran che, si brindava “gambei! – ganbei!” con dell’ottima “pijiu” (birra). Alla fine per accompagnare il dolce (frittelle farcite con pasta di fagioli) comparvero delle bottiglie di “baijiu” la grappa locale. Uno dei cinesi lanciò la sfida: uncinò con il suo il braccio quello di Francone, il capo dei nostri montatori. “A puest tu sos fantat!”, disse solamente Francone – già artigliere di montagna – e dopo il primo ne spedì – letteralmente – altri tre sotto il tavolo al grido di “ganbej!” (salute-prosit).
Sul lavoro i cinesi, quasi tutti giovani, erano attenti e scrupolosi, con un’ottima preparazione di base, intelligentissimi. Tutto faceva intendere, già allora, che avevano intrapreso un processo di crescita in tutti i settori. Che puntualmente li ha portati all’eccellenza in molti comparti strategici. Seppure con qualche contraddizione. Io stesso, nelle zone rurali, vidi realizzare delle costruzioni (case, stalle, ricoveri?) con le canne palustri e l’argilla. Un collega più giovane, che ci è tornato solo due anni fa, mi dice che si fanno ancora, magari a poche centinaia di metri dai moderni grattacieli che crescono come i funghi.
La Cina è immensa, 1,5 miliardi di persone con consumi in crescita, una produzione esuberante e competitiva, in grado di invadere i mercati mondiali. Ma ha bisogno anche di tante cose. E cinesi amano l’Italia e i prodotti italiani. Sta a noi, ai governanti e agli imprenditori prima di tutti, trarre profitto da questa duplice valenza della realtà cinese.

venerdì 20 marzo 2020

OPEN LETTER TO GOOGLE because there is more to do to be OK


      Spett. GOOGLE sono costretto a scrivere questa lettera aperta perché non trovo altro modo per farvi comprendere una cosa giusta.                 
E semplicissima, che tutti possono comprendere, anche Voi, basterebbe che prestaste un poco di attenzione e, prima ancora, che mi deste la possibilità di spiegarmi. Anche se, a mio parere, già avete tutti gli elementi per capire e agire di conseguenza. 

Ma andiamo con ordine, schematicamente per non dilungarsi troppo:

-   -Io sono un privato cittadino, non un’azienda, un’associazione, un ente…;

-   -Anni fa, utilizzando il SW gratuito di “Blogger.com” ho creato un mio sito denominato “voce civica”;

-   -Qualche anno dopo, mediante una delle possibilità messe a disposizione da GOOGLE ho registrato un dominio in esclusiva a pagamento, questo su cui scrivo questa lettera: “vocecivica.com”;

-   -Il dominio pare sia fornito da “enom.com”, ma il canone di registrazione è gestito da GOOGLE, tramite una sua divisione (ora Google cloud team);

-   -Il pagamento del canone annuale di 10,00 USD è stato fatto sull’apposita piattaforma di Google messa a disposizione dell’amministratore del sito, nel caso io stesso;

-  -Il canone scade il 29 marzo o il 5 aprile di ogni anno (a seconda dei vari documenti; ma la piccola differenza non conta);

-   -L’anno scorso, 2019, io ho regolarmente pagato con una carta di credito ricaricabile Visa, per un anno, quindi sino al 29 marzo, o il 5 aprile, 2020;

-   -Già a gennaio 2020 sono arrivate delle mail di Google con l’invito a pagare il rinnovo della registrazione del dominio “vocecivica.com”;

-   -Essendo scaduta la Visa con cui avevo pagato negli anni precedenti, ho immesso – nell’apposito format di Google” una nuova carta di credito Visa ricaricabile e, con quella, in data 3 febbraio 2020 ho rinnovato per un anno, ovvero sino ad marzo/aprile 2021 il dominio del sito “vocecivica.com”;

-   -Il pagamento di 10,00 USD è andato a buon fine e risulta addebitato sulla mia carta di credito e accreditato a Google come risulta dal mio profilo “amministratore” alla pagina “ID profilo pagamenti 8525-5895-1017”;

-   -Per quanto sopra, provato anche dai documenti on line di Google” (e dalla mia Visa), io ho regolarmente pagato il rinnovo del dominio “vocecivica.com” sino al 28 marzo 2021 secondo Google, sino al 5 aprile 2021 secondo Enom.com (ripeto che la differenza non fa … differenza);

-   -Ma, nonostante il rinnovo sino alle date soprariportate, mi sono giunte numerose mail da parte di Enom.com e Google che mi annunciano la sospensione del dominio a marzo/aprile 2020. E di fatto sulle mie pagine “amministratore” la mia posizione risulta SOSPESA;

-   -Ho provato in tutti i modi a segnalare che il rinnovo, sino a marzo/aprile 20121 è stato pagato da me e accreditato a Google: nulla da fare Google insiste che i pagamenti non si potrebbero fare con carte di credito ricaricabili e che bisognerebbe impostare il rinnovo automatico;

-   -Cosa di cui al limite si può discutere a marzo/aprile 2021, non ora a marzo 2020 e dopo aver incassato l’importo previsto di 10,00 Usd, pari a 9,06 euro come risulta dalla contabile della mia Visa.

Se Google non corregge la sua posizione, annullando la sospensione e reintegrando pienamente il dominio “vocecivica.com” si troverà nella posizione di chi incassa un importo ma non fornisce il servizio pattuito.

Non so come sia definito e trattato questo fatto negli USA, ma in Europa ciò costituisce reato, oltre che una pessima prassi commerciale. Confido pertanto che Google provveda di conseguenza immediatamente, senza se e senza ma. “Errare humanum est, perseverare diabolicum et tertium non datur…”

Pagamneto a Google di 9,06 Euro pari a 10 USD in data 3 febbraio 2020


mercoledì 19 febbraio 2020

LA COOPERATIVA DI COMUNITA’ “Aiutati che io ti aiuto”

La cooperativa di comunità: uno strumento di sostegno
per i borghi di montagna che si stanno spopolando

Succiso è un piccolo borgo sull’Appennino Tosco-Emiliano in provincia di Reggio Emilia. Si trova ad un’ altitudine di 980 metri sul livello del mare e conta 65 abitanti. E’ una frazione del comune di Ventasso, costituito nel 2016 a seguito della fusione di due comuni con poco meno di mille residenti e altri due che di abitanti ne contavano poco di più e che già collaboravano nella Unione dei comuni dell’alto Appennino reggiano (e anche questo dovrebbe dire qualcosa a quanti faticano a individuare un nuovo modello di governo del territorio).

Nel 1991, a Succiso, chiusero in rapida successione l’ultimo bar e il solo negozio di alimentari che vi era. Venuti a mancare i soli servizi e punti di aggregazione rimasti, per il piccolo borgo si profilava il tracollo definitivo, con l’abbandono degli ultimi resistenti… pardon residenti. Fu allora che i “ragazzi” della Pro loco si rimboccarono le maniche e costituirono la “Cooperativa Valle dei cavalieri”, dal nome dell’area geografica in cui si trova Succiso. Non una cooperativa di consumo, non di produzione, non di credito, non di servizi, non solo sociale, ma di “tutto un poco”; di quello che serviva alla sopravvivenza e al rilancio della piccola comunità.

Un po’ alla volta hanno riaperto il negozio, il bar, un ristorante, un forno, un agriturismo; avviato allevamenti, produzioni di formaggi, latticini e salumi; promosso e sostenuto attività sociali, di lavoro, manutenzione territorio, cultura, attività didattiche, sportive e del tempo libero; avviato servizi di trasporto locale, ritiro e recapito (merci, posta, farmaci). Essendo in pochi hanno dovuto e saputo sfruttare al massimo la flessibilità e l’eccletticità di ciascuno, talché ognuno dei soci e lavoratori ricopre almeno tre o quattro ruoli e ha dovuto imparare altrettanti mestieri. Succede così che, per esempio, chi prima dell’alba sforna il pane, al mattino guida il pulmino per il trasporto degli studenti e degli anziani ove sono scuole e servizi sanitari, al ritorno porta in paese merci, la posta e i farmaci, provvedendo alla distribuzione, poi magari alla sera è di turno al bar o al ristorante. Così per tutti gli altri. La cooperativa festeggerà tra poco i 30 anni di attività; ora ha 55 soci, praticamente l’intero paese, 7 dipendenti fissi e tanti collaboratori a tempo parziale. Ed è un modello studiato in tutto il modo! Non a caso sono venuti a Succiso da Canada, Stati Uniti, Giappone, Corea e altri paesi. Meno dall’Italia (come sempre purtroppo) e una normativa nazionale ancora non c’è, vi hanno provveduto, bensì, alcune regioni a partire dall’ Emilia Romagna. 

Senza nemmeno averne la consapevolezza, i “ragazzi della Pro” che non si rassegnarono ad abbandonare il loro borgo e vederlo morire, hanno inventato la Cooperativa di Comunità, una nuova forma di impresa; un modello di innovazione economica e sociale dove i cittadini sono produttori e fruitori di beni e servizi,  che crea sinergia e coesione in una comunità, mettendo a sistema le attività di singoli cittadini, imprese, associazioni e istituzioni, rispondendo così ad esigenze plurime di mutualità, con l ‘obiettivo di produrre vantaggi a favore della comunità alla quale i soci promotori appartengono. E ciò viene perseguito attraverso la produzione di beni e servizi per incidere in modo stabile su aspetti fondamentali della qualità della vita sociale ed economica della comunità.

La prima Cooperativa di Comunità d’Italia non ha solamente salvato il borgo montano di Succiso, lo ha rilanciato e ne ha fatto un modello, studiato ed esportato in tutto il mondo. Cooperativa Valle Dei Cavalieri: un nome che ricorda quello di una favola. Effettivamente in questa storia ci sono tutti gli ingredienti di una favola a lieto fine. Che speriamo possa ripetersi in altre valli, soprattutto là dove ci sono dei borghi che si stanno spopolando: praticamente tutta l'area montana, tranne le perle turistiche. Per questi territori si dovrebbe predisporre, prima ancora dei sostegni economici, degli strumenti di formazione, di stimolo e assistenza perché i residenti costituiscano e sviluppino le Cooperative di Comunità.  Lanciando un messaggio chiaro: “Aiutatevi che io vi aiuto”.

domenica 2 febbraio 2020


UNA LEZIONE DI POLITICA ECONOMICA TERRITORIALE


Tra vigne, meleti, spa e resort

Ubaldo Muzzatti  -  30 gennaio 2020
Politica – Economia

Vigneti Tra Caldaro e Appiano (Bolzano)

Con l’ingegnere partivamo in auto al pomeriggio per essere su in serata e pienamente operativi il mattino dopo. Meta della trasferta l’Alto Adige, tra Caldaro e Appiano. Qui in mezzo alle vigne e ai meleti, tenuti che è una meraviglia, era insediata l’azienda per la quale stavamo lavorando in qualità di consulenti di organizzazione industriale. Si pernottava in un alberghetto che, ufficialmente, si fregiava di due sole stelle ma con struttura, confort e servizio di ottimo livello che in molte altre località non si trovano in hotel di prima categoria. Al mattino la colazione era un tripudio di delicatessen locali e fatte in casa. La scelta era smisurata, anche nei periodi di bassa stagione, quando io e l’ingegnere eravamo tra i pochi clienti. Naturalmente l’edificio e tutto l’arredamento erano tipicamente tirolesi. In mezzo a tanto legno, usato con sapienza, spiccava sul banco della reception il computer. Erano i tempi in cui questo device faceva le prime apparizioni nelle medie e grandi aziende industriali, mentre nelle piccole, nelle attività artigianali e commerciali, almeno da noi, era ancora un oggetto poco conosciuto.
Al mattino raggiungevamo lo stabilimento. Passando in mezzo ai vigneti vedevamo già i coltivatori all’opera. Durante la fase vegetativa della vite, in uno spiazzo lungo la strada, ove era posizionato l’apposito impianto, avveniva il riempimento delle cisterne irroratrici per i trattamenti. Sovraintendeva l’operazione un tecnico della direzione provinciale agricoltura. Tutti i coltivatori della zona affluivano con le botti trainate dal trattore, esibivano al tecnico provinciale un cartellino con i dati delle rispettive coltivazioni e, in base a questi, venivano riforniti della giusta quantità e tipologia di miscela pronta all’uso, non senza aver tarato l’impianto e gli ugelli di aspersione. Credo che molti si siano posti la domanda: “E’ possibile che tutti gli agricoltori sappiano scegliere, dosare e usare anticrittogamici, pesticidi, diserbanti, concimi e quant’altro? Non sarà che alcuni padroneggiano poco queste sostanze, con i rischi conseguenti per sé e soprattutto per i consumatori?”. Nella provincia autonoma di Bolzano hanno dato una risposta concreta, generalizzata e preventiva a questo dubbio.
Lo stabilimento era costituito da una costruzione in pannelli prefabbricati, come se ne vedono tanti nelle nostre zone industriali. Ben fatto e ben tenuto ma, in zona pedemontana, non lontano dal lago di Caldaro, in mezzo alle vigne, non lontano dai tipici insediamenti montani, non si può dire che fosse bello. Non di meno l’attività andava bene. Bisognava ampliare e a tal scopo era stata presentata domanda di concessione edilizia. Passavano i mesi e, a dispetto del noto efficientismo locale, il permesso a costruire non arrivava, nonostante ripetuti solleciti. Finché un giorno il titolare sbottando disse: “Venite con me, ho chiesto un incontro alla Direzione competente in Provincia”. Ci presentammo dunque negli uffici provinciali ed esponemmo il caso, prospettando l’esigenza di ampliare gli spazi produttivi; sottolineando i benefici occupazionali che ne sarebbero derivati. L’alto funzionario ci ascoltò con attenzione ma senza entusiasmo. Quando venne il suo turno, fermo e pacato, ci ricordò che la Provincia Autonoma di Bolzano aveva una precisa e consolidata politica economica di sviluppo basata su due filiere: quella agro alimentare e quella del turismo. Purtroppo il progetto presentato non rientrava in quelli individuati dalla politica di sviluppo del territorio. Da qui la mancata risposta e il probabile rigetto della domanda. “Per quel luogo – concluse sorridendo – presentate, invece, una domanda per la realizzazione di una spa, un resort, che ben si inseriscono nel contesto, e sarà evasa immediatamente”.

Centro benessere di Naturno in Val Venosta (BZ)
Son tornato di recente in Alto Adige, a Merano, in Val Venosta e in Val Passiria. Visti i centri termali, le spa in quasi tutti gli alberghi; visto lo straordinario meleto della Venosta; i masi e gli allevamenti della Passiria; le aziende lattiero casearie, si può star certi che la politica economica e di sviluppo di quel territorio si basa ancora sulle due filiere individuate e sostenute coerentemente dalla amministrazione provinciale.
Non è detto che altri territori, altre regioni possano / debbano individuare e sostenere quelle stesse filiere o solo quelle. Ma l’esempio citato prova che anche una regione, soprattutto se autonoma, può e deve individuare una politica economica / industriale e perseguirla con coerenza. Evitando di disperdere le poche risorse disponibili in mille rivoli e con continui cambi di rotta.

martedì 18 aprile 2017

CITTA' e TERRITORIO

Una nuova articolazione amministrativa per sviluppare e valorizzare armonicamente
realtà complementari indissolubili, ma con strutture, problematiche ed esigenze diverse

In quasi tutto il mondo, gli abitanti risiedono in parte nelle medie e grandi città e in parte in cittadine, paesi e villaggi sparsi sul territorio. In alcune regioni, soprattutto ove presenti le metropoli, prevalgono i cittadini, in altre sono più numerosi i residenti sul territorio.
In Friuli Venezia Giulia, per esempio, ci sono poche città e vi risiede meno di un terzo della popolazione. Oltre due terzi, invece, risiedono nelle cittadine, nei paesi e nei borghi del territorio. Semplificando, ma non ci si discosta dalla realtà, possiamo considerare:
  • ·  città, i tre (ex?) capoluoghi di provincia e il capoluogo regionale;

·       territorio, le cittadine, i paesi, villaggi e borghi dei comuni non capoluogo.
Stabilito, schematicamente, quali sono le città e cos’è il territorio, è indubbio che si tratti di realtà:
o   diverse per dimensione, concentrazione di popolazione, edificazione e infrastrutture; spazi, aree verdi e naturali, contenitori e contenuti, …;
o   con problematiche gestionali e amministrative differenti per molti versi;
o   con esigenze di conduzione, di cure e investimenti affatto simili;
o   persino atteggiamenti e mentalità dei residenti, pur formati dagli stessi curricola scolastici e distratti dagli stessi media (televisione in primis), palesano qualche differenza.
Non di meno le due realtà, città e territorio, sono indissolubili e complementari, reciprocamente indispensabili per la qualità di vita di tutta la popolazione.
E’ interesse di tutti (ovunque residenti) che:
·       la città realizzi, si doti, sviluppi, organizzi, gestisca, offra, …, i servizi, i contenitori e i contenuti che possono essere localizzati solo in un contesto urbano di una certa dimensione…;
·       il territorio realizzi, si doti, sviluppi, organizzi, gestisca, custodisca, …, quanto rende possibile la fruizione dell’immenso e insostituibile patrimonio, naturale e antropizzato, diffuso...;
·    in entrambe le realtà si attuino politiche e pratiche amministrative, di erogazione dei servizi, di investimenti e gestionali specifici e, quindi, opportunamente differenziati.
Non è la stessa cosa amministrare una città o il territorio e pure abbiamo bisogno di città e comunità extraurbane gestite entrambe in modo ottimale.
Abbiamo l’esigenza di ottimizzare la gestione delle due realtà, nell’interesse di tutti, perseguendo uno sviluppo armonico e complementare.
In alcune regioni europee ciò è realtà. A queste bisogna guardare per adottare adattando.

RAPPORTO AMMINISTRATIVO TRA CITTA’ E TERRITORIO, DUE MODELLI BASE
Non bisogna farsi distrarre dalle infinite varianti possibili. Il rapporto istituzionale tra la città e il territorio ha due soli modelli base:
-         il modello centralistico (franco-napoleonico) accentrato su un capoluogo, al quale il territorio è sottoposto, sino a perdere persino la sua denominazione, per assumere quella della città. E’ importante ricordare che, con la “Grande riforma territoriale” del 2014, voluta dal presidente Hollande, la Francia stessa sta abbandonando il modello centralistico (soppressione dei consigli provinciali entro il 2020)  e ha introdotto le “intercomunalità” e le “comunità di comuni” istituzioni che si rifanno al modello alternativo  descritto qui sotto;
-   il modello federalistico (renano-danubbiano) che pone sullo stesso piano le comunità grandi e piccole; realizza l’ente di maggiore dimensione con la federazione degli enti minori che lo costituiscono; non sottopone il territorio alla città, riconoscendo necessaria la distinzione tra i grandi centri urbani e i centri minori.

Il modello centralistico tende inevitabilmente ad accentrare le risorse e le attenzioni nel capoluogo, con un doppio esito negativo:
-     abbandono, spopolamento, depauperamento del territorio; distruzione di valore (patrimonio abitativo, infrastrutturale e culturale abbandonato);
-       inurbamento eccessivo e repentino della popolazione, espansione delle periferie e scadimento della città e della qualità di vita (inquinamento, traffico, rumore); duplicazione dei costi (edificazione e infrastrutturazione in sostituzione di quanto abbandonato).
Questi fenomeni sono stati particolarmente marcati nella Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia; molto più che nella regione ordinaria Veneto, per esempio.
Il territorio, dalla montagna alla bassa friulana, dai borghi alle cittadine già fulcro del policentrismo regionale (Tolmezzo, Gemona, Cervignano, Spilimbergo, Maniago, …) ha avuto scarse attenzioni e poche risorse.
E i risultati si vedono! Basta guardare gli andamenti demografici dei comuni del territorio. Lo spopolamento – si badi bene – è l’effetto (delle disattenzioni) e non la causa del mancato sviluppo. Cui fa riscontro la caotica espansione delle città regionali. Grandi periferie senza pregio cingono d’assedio quelli che erano splendidi centri urbani, a misura d’uomo.

UN MODELLO FEDERALISTICO PER L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI LOCALI
E’il modello vigente (con pochissime differenze sostanziali) in Germania, Svizzera, Austria, Province Autonome di Trento e Bolzano. Posto che come ovunque il Comune è l’istituzione di base questo modello prevede che l’ente immediatamente superiore (intermedio tra comune e regione/provincia/land/cantone):
·  abbia caratteristiche di omogeneità geo-orografiche, socio-economiche, storico-culturali;
·  abbia un’ampiezza sufficiente per erogare servizi e pianificare sviluppo e investimenti;
·       sia costituito da un’aggregazione di comuni con prerogative federalistiche (delega di funzioni e non cessione di competenze; pari dignità degli aderenti; …)
·       sia costituito tra “pari” ovvero operando la separazione dei grandi centri urbani e non sottoponendo a questi i territori circostanti;
·    sia collegio per l’elezione dell’ente superiore, per la certezza della rappresentanza in esso;
·       goda di autonomia e reale facoltà di scelta nelle materie assegnate;
·   sia finanziato con parametri certi, in base a popolazione residente, estensione territoriale, imposte raccolte, singolarmente o in combinazione, secondo i capitoli di spesa.
Questa organizzazione degli enti locali è stata il fattore determinante (anche se non unico) dell’armonico sviluppo riscontrabile nei paesi e province citati. Laddove i fenomeni di depauperamento - evidenti in vaste porzioni del FVG - non ci sono stati.

ADOTTARE, ADATTANDO, IL MODELLO FEDERALISTICO “RENANO-DANUBBIANO”
La regione FVG è molto complessa, per nulla omogenea, ricca di diversità. Non di meno, anzi a maggior ragione, il Sistema Regione – Autonomie locali deve essere: adeguato, efficace, efficiente, equivalente, sostenibile, affidabile, introducibile, condiviso.
Questi requisiti, tenuto conto della complessità detta, possono essere assicurati solo da un’organizzazione di tipo federalistico, lungamente sperimentata e affinata nel tempo con una serie di ritocchi: IL MODELLO RENANO – DANUBBIANO.
In sintesi l’introduzione del modello “renano-danubbiano” in Regione prevede:
-  la costituzione di aggregazioni di comuni territoriali compatte e omogenee (da 20 a 25);
-   il riconoscimento di 4/5 città extraterritoriali con le competenze delle aggregazioni;
-  la fusione di comuni esclusivamente su base volontaria e l’assenso di ciascuno;
- la costituzione volontaria di sovra-ambiti di scopo, per la gestione delle problematiche specifiche comuni a più aggregazioni, anche non contigue.

Le 4 città extraterritoriali, avranno le medesime competenze delle aggregazioni, in pratica saranno un ente intermedio monocomunale (come le città di Germania e Austria e Bolzano stessa); sindaco e giunta, avranno – oltre che i poteri comunali –quelli del presidente e della giunta delle aggregazioni. Per quanto sopra gli enti intermedi risulteranno dalla somma delle aggregazioni territoriali e delle città extraterritoriali: 24-29.
La compresenza di aggregazioni territoriali, città extraterritoriali e sovra-ambiti di scopo prefigura una forma di organizzazione a matrice, l’unica che permette di gestire efficacemente la complessa situazione del Friuli Venezia Giulia, senza sacrificare alcune comunità e porzioni di territorio; in essenza, senza ledere i principi della democrazia.


IL MODELLO APPLICATO AL FRIULI OCCIDENTALE

L’ipotesi di base prevede di partire dalle aggregazioni storicamente riconosciute e condivise dalla popolazione residente: i mandamenti; tenendo conto anche dei mutamenti, socio-economici e demografici, avvenuti negli ultimi decenni:
·       aggregazione dei comuni dell’Azzanese (del Sile)
·       aggregazione dei comuni del Maniaghese (delle Dolomiti friulane)
·       aggregazione dei comuni del Sacilese (del Livenza)
·       aggregazione dei comuni del Sanvitese (della destra Tagliamento)
·       aggregazione dei comuni dello Spilimberghese (delle Prealpi friulane)
o   Città di Pordenone (ente intermedio mono comunale, come Bolzano)
 in alternativa:
o Aggregazione del Noncello (a 3: Pordenone-Cordenons-Porcia, come Trento)
Ovviamente si può e si deve ragionare su possibili aggiustamenti e alternative ma motivate e … ragionevoli. In ogni modo, nei casi dibattuti la parola va ai cittadini che decidono con referendum. Questa, che tocca il senso di appartenenza di ciascuno, non è materia di delega in bianco!


lunedì 25 gennaio 2016

UNA CARTOLINA DAL LAGER

La storia di un giovane militare italiano prigioniero nel campo di Görlitz.
Dove fu prigioniero il musicista francese Olivier Messiaen
che vi compose il “Quatuor pour la fin du Temps”.

La locandina della prima eseguita nel campo di prigionia

Quel 27 novembre 1943, il postino di Tramonti di Sotto cambiò il giro di distribuzione e s’infilò, prima di ogni cosa, nel portone della Palcodana, in via Manzoni. Teneva già in mano una cartolina, attesa, in una delle case del cortile, con sentimenti contrastanti di speranza e di apprensione. Egli conosceva bene i vari tipi di cartoncini, color seppia o carta da zucchero, che recapitava alle famiglie in quegli anni di guerra. Vi erano quelli del Distretto Militare, che annunciavano un caduto o un disperso e che gettavano nella disperazione le famiglie, soprattutto le donne: madri, sorelle, mogli, promesse. Poi quelli della Croce Rossa Italiana, più interlocutori, che qualche speranza la lasciavano, anche se spesso risultava vana. Questa, scritta l’undici novembre, spedita il diciassette e giunta a Tramonti dieci giorni dopo, era diversa: una “Kriegsgefangenenpost”, ovvero una corrispondenza dei prigionieri di guerra, giunta “in porto franco” dal M-Stammlager VIII A – Deutschland. Non fossero tragiche le circostanze e sciagurate le ragioni di questi documenti, se ne potrebbe – ancora oggi – notare la precisione teutonica. Destinataria: Signora Miniutti Maria; luogo di destinazione: Tramonti di Sotto, Via Manzoni N° 93 (Pa Udine); mittente: Rugo Elio. Il frontespizio, come il testo sul retro, erano scritti in una stessa bella calligrafia; il “Gefangenennummer” (numero del prigioniero), invece, era chiaramente scritto da altra mano, meno distesa, più apprensiva, quasi a marcare l’infamia di chi aveva introdotto e gestiva questo sistema numerario. In quel tragico novembre il giovane (diciannove anni compiuti da poco), rinchiuso nello Stammlager, scriveva ed era lui a dare forza e conforto:

Fronte e retro della cartolina spedita dal campo di prigionia tedesco


Carissima Mamma ti faccio sapere che io sto bene, così spero sia anche di te, Sorella e Nonna. Mi farete sapere come vi trovate voi tutti. Nel rimanente foglietto scrivetemi come vi trovate. Informatevi se si può mandarmi un pacco, mandatemi fumare e mangiare e calzetti. Datevi coraggio e non pensate di me. Resto salutandoti Te, Nonna e Sorella, tanti baci tuo figlio Rugo Elio”.

Elio era stato chiamato alle armi l’otto settembre 1942, aveva compiuto diciotto anni da appena tre mesi. Esattamente un anno dopo, 8 settembre 1943, l’Italia firmò la pace separata con gli alleati e giusto il giorno appresso, il 9 settembre, egli fu catturato prigioniero dai tedeschi a Gorizia e internato in Germania. Con un commilitone, al concitato “rompete le righe”, si era buttato per il Natisone con l’intento di guadarlo e prendere la strada di casa. Sennonché, i tedeschi – sull’avviso da giorni, al contrario dei comandanti italiani - li intercettarono immediatamente. Al rabbioso: “Stopp auffangen”, Elio si fermò alzando le mani. L’amico, invece, tentò una fuga disperata. Una raffica di MP40 lo colse in mezzo alla corrente e, ancora, il fiume si tinse di sangue. 

Rugo Elio chiamato alle armi nel 1942 a 18 anni e fatto prigioniero il 9 settembre 1943

Da allora, a Tramonti, nulla si era saputo di lui, sino a novembre quando fu recapitata la cartolina. Non sappiamo con quali sentimenti venne accolta, ma c’è da augurarsi che allora non si sapesse cosa stava accadendo in Germania e cosa significasse M-Stammlager. Anche se ora sappiamo che questi campi, gestiti dall’esercito e destinati agli Internati Militari Italiani, erano diversi da quelli di sterminio, ma lo erano anche da quelli destinati ai prigionieri di guerra. Agli italiani, infatti, i tedeschi non riconobbero lo status di prigioniero in modo da giustificare, nei loro confronti, l’esclusione dai diritti riconosciuti dalla Convenzione di Ginevra. Le condizioni nei campi erano durissime e gli internati italiani furono messi al lavoro coatto. L’orario settimanale era in media di 57,4 ore e nelle miniere di 52,1 (circa nove ore giornaliere). Dei circa 650.000 internati (800.000 secondo altre fonti) da 40 a 50.000 perirono nei lager: 10.000 per la durezza e la pericolosità del lavoro, 23.000 per malattie e malnutrizione, 2.700 a causa dei bombardamenti alleati, 5-7.000 perirono sul fronte orientale e 4.600 furono le esecuzioni capitali, comminate dai tedeschi anche per motivi risibili o per mera rappresaglia. Elio stesso raccontò di essere scampato alla forca, installata nella spianata dell’appello, solo in ragione della sua corporatura minuta che lo faceva sembrare ancor più giovane dei diciannove anni che aveva. Motivo della sentenza: la raccolta di bucce di patata dai rifiuti delle cucine. Raccontava anche di aver potuto resistere e sopravvivere grazie alle bucce e qualche pezzetto di pane che gli serbava e passava attraverso la rete delle due sezioni, maschile e femminile, una giovane prigioniera russa: un altro piccolo esempio di come nemmeno l’inferno in terra, com’è stato giustamente definito il lager, può sopprimere l’essenza umana. Nell’agosto del 1945, quando, a quattro mesi dalla fine della guerra, i prigionieri furono definitivamente liberati, i due giovani si incamminarono insieme verso sud nell’intento di raggiungere l’Italia. Approssimandosi al Friuli, Elio raccolse la voce che Tramonti di Sotto era stata bruciata dai tedeschi per rappresaglia e che molti abitanti vi erano periti. Il nuovo durissimo colpo, il timore di non ritrovare la casa e i parenti, lo indussero a separarsi dalla giovane russa e proseguire da solo con i più tristi presagi. Scoprì più avanti che il paese bruciato era Forni di Sotto e non Tramonti, un malinteso che aggiunse altre pene a chi già tanto aveva sofferto.
Lo Stammlager VIII A, situato a Görlitz, nel sud-est della Germania, era già stato liberato dai sovietici, durante la loro avanzata, il 14 febbraio del 1945. Qui erano stati concentrati anche dei prigionieri russi, 12.000 dei quali vi avevano trovato la morte. Per questo, il comando russo fu irremovibile e il Kapò fu giustiziato immediatamente con la forca issata da lui stesso nella spianata dell’appello. La corda era già stata ritirata, toccò al prigioniero più giovane issarsi sulla trave e rimetterla in sede. Al resto pensarono i prigionieri più anziani e i liberatori. I tempi e le circostanze non permisero esiti diversi. Il proseguio della guerra sino a maggio e la complessa situazione che ne seguì costrinsero gli ex prigionieri del campo a rimanere in Germania sino ad agosto, quando finalmente poterono intraprendere la via di casa, ove cercare di dimenticare la dura esperienza vissuta e riannodare i fili di una vita segnata da eventi così laceranti.
In precedenza, tra il 1940 e il 1941, quando la guerra – sempre inumana - non era ancora, un’immane e orribile tragedia, il campo di Görlitz aveva ospitato dei prigionieri francesi. Il comandante di allora, appassionato di musica, saputo che tra di essi vi era un certo Olivier Messiaen, musicista e compositore, si adoperò perché questi potesse tenere un concerto nel campo. Per l’occasione il maestro compose un’opera del tutto nuova, il Quatuor pour la fin du Temps, capolavoro allegorico in omaggio all'Angelo dell'Apocalisse, che alza la mano verso il cielo dicendo: "Non ci sarà più il Tempo". Il Quartetto per la fine del Tempo, composizione da camera, è considerato uno dei più alti esempi di musica del ventesimo secolo. E’ un’opera con precisi e profondi riferimenti religiosi, filosofici e tecnici (musicali). Il concerto cameristico fu eseguito la prima volta il 15 gennaio del 1941, sotto la neve e in condizioni inimmaginabili, di fronte a tutti i prigionieri dello Stalag VIII A radunati in un piazzale gelato. Gli altri musicisti a eseguire il Quatuor con Messiaen furono: Henri Akoka (clarinetto), Jean Le Boulaire (violino) e Étienne Pasquier (violoncello). I nazisti riuscirono a procurare per Pasquier un violoncello con tre sole corde e il pianoforte su cui suonò Messiaen era talmente vecchio e malmesso che i tasti, una volta premuti, restavano abbassati. Ci piace credere che l’eco della musica abbia aleggiato a lungo sulle baracche del campo e recato conforto al giovane Elio e con lui a tutti gli uomini e le donne che vi hanno sofferto la prigionia.

Tutto questo non si sapeva tal curtîf da la Palcodana, a Tramonti di Sotto, in quel novembre del ’43. Né si sapeva da dove arrivasse quella cartolina, se non dalla Germania, nome che già incuteva timore. Per le tre donne, Madre, Nonna e Sorella, la cartolina riportava la speranza del ritorno che si sarebbe concretizzato solo due anni più tardi. Ora sappiamo che l’M-Stammlager VIII A era un campo di prigionia base, situato a Görlitz, una cittadina vicino a Dresda nel sud-est dell’attuale Germania, ai confini con la Polonia e la Repubblica Ceca. Il campo, recintato con il filo spinato, era costituito da baracche di legno che ospitavano le cuccette a castello per i prigionieri. Progettato per 15.000 “ospiti”, ve ne furono ammassati anche 47.000. Come ricordato, nelle varie fasi della guerra, vi furono concentrati prigionieri francesi, polacchi, inglesi, russi e infine gli IMI (Internati Militari Italiani). Attualmente Görlitz è una città di 57.000 abitanti, la sua bellezza è dovuta alla graziosa armonia di stili architettonici: un insieme di palazzi gotici, rinascimentali, barocchi e Art nouveau. Il campo di prigionia è stato completamente demolito, solo una stele ne ricorda il sito e le sofferenze dei reclusi e, naturalmente, le note di Messiaen con l’ammonimento dell’Angelo dell’Apocalisse: “Non ci sarà più il Tempo; almeno per questo no, speriamo.
La guerra era finita da alcuni mesi, chi ne era scampato aveva fatto ritorno, c’era voglia di dimenticare, di ricominciare a vivere. La brezza di primavera aveva attutito l’eco della battaglia sul monte Rest, le voci secche dei caucasici e dei tedeschi durante i rastrellamenti. Il sole d’estate aveva asciugato il sangue dei martiri di Palcoda, fucilati contro il muro del piccolo cimitero dietro la chiesa di Tramonti di sotto. Restava il dramma dei dispersi, degli internati di cui ancora non si sapeva nulla; tra questi Elio sempre atteso dalle “Carissime Manna, Nonna e Sorella”. E, ad agosto, senza preavviso, egli tornò. A stento fu riconosciuto quando giunse in Plazzoleta, all’ingresso del paese. Poi la voce corse fulminea per il borgo e tutti si riversarono tal curtîf da la Palcodana (la cara Nonna di Elio) per riabbracciare e festeggiare il reduce. Poche furono le domande ed evasive le risposte sugli anni della prigionia: bisognava farsene una ragione, magari dimenticare. Più avanti negli anni, invece, Elio cominciò a raccontare perché, come diceva: “doveis savê”. Dobbiamo sapere e dobbiamo ricordare.

                                                                                                                                    Ubaldo Muzzatti