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lunedì 25 gennaio 2016

UNA CARTOLINA DAL LAGER

La storia di un giovane militare italiano prigioniero nel campo di Görlitz.
Dove fu prigioniero il musicista francese Olivier Messiaen
che vi compose il “Quatuor pour la fin du Temps”.

La locandina della prima eseguita nel campo di prigionia

Quel 27 novembre 1943, il postino di Tramonti di Sotto cambiò il giro di distribuzione e s’infilò, prima di ogni cosa, nel portone della Palcodana, in via Manzoni. Teneva già in mano una cartolina, attesa, in una delle case del cortile, con sentimenti contrastanti di speranza e di apprensione. Egli conosceva bene i vari tipi di cartoncini, color seppia o carta da zucchero, che recapitava alle famiglie in quegli anni di guerra. Vi erano quelli del Distretto Militare, che annunciavano un caduto o un disperso e che gettavano nella disperazione le famiglie, soprattutto le donne: madri, sorelle, mogli, promesse. Poi quelli della Croce Rossa Italiana, più interlocutori, che qualche speranza la lasciavano, anche se spesso risultava vana. Questa, scritta l’undici novembre, spedita il diciassette e giunta a Tramonti dieci giorni dopo, era diversa: una “Kriegsgefangenenpost”, ovvero una corrispondenza dei prigionieri di guerra, giunta “in porto franco” dal M-Stammlager VIII A – Deutschland. Non fossero tragiche le circostanze e sciagurate le ragioni di questi documenti, se ne potrebbe – ancora oggi – notare la precisione teutonica. Destinataria: Signora Miniutti Maria; luogo di destinazione: Tramonti di Sotto, Via Manzoni N° 93 (Pa Udine); mittente: Rugo Elio. Il frontespizio, come il testo sul retro, erano scritti in una stessa bella calligrafia; il “Gefangenennummer” (numero del prigioniero), invece, era chiaramente scritto da altra mano, meno distesa, più apprensiva, quasi a marcare l’infamia di chi aveva introdotto e gestiva questo sistema numerario. In quel tragico novembre il giovane (diciannove anni compiuti da poco), rinchiuso nello Stammlager, scriveva ed era lui a dare forza e conforto:

Fronte e retro della cartolina spedita dal campo di prigionia tedesco


Carissima Mamma ti faccio sapere che io sto bene, così spero sia anche di te, Sorella e Nonna. Mi farete sapere come vi trovate voi tutti. Nel rimanente foglietto scrivetemi come vi trovate. Informatevi se si può mandarmi un pacco, mandatemi fumare e mangiare e calzetti. Datevi coraggio e non pensate di me. Resto salutandoti Te, Nonna e Sorella, tanti baci tuo figlio Rugo Elio”.

Elio era stato chiamato alle armi l’otto settembre 1942, aveva compiuto diciotto anni da appena tre mesi. Esattamente un anno dopo, 8 settembre 1943, l’Italia firmò la pace separata con gli alleati e giusto il giorno appresso, il 9 settembre, egli fu catturato prigioniero dai tedeschi a Gorizia e internato in Germania. Con un commilitone, al concitato “rompete le righe”, si era buttato per il Natisone con l’intento di guadarlo e prendere la strada di casa. Sennonché, i tedeschi – sull’avviso da giorni, al contrario dei comandanti italiani - li intercettarono immediatamente. Al rabbioso: “Stopp auffangen”, Elio si fermò alzando le mani. L’amico, invece, tentò una fuga disperata. Una raffica di MP40 lo colse in mezzo alla corrente e, ancora, il fiume si tinse di sangue. 

Rugo Elio chiamato alle armi nel 1942 a 18 anni e fatto prigioniero il 9 settembre 1943

Da allora, a Tramonti, nulla si era saputo di lui, sino a novembre quando fu recapitata la cartolina. Non sappiamo con quali sentimenti venne accolta, ma c’è da augurarsi che allora non si sapesse cosa stava accadendo in Germania e cosa significasse M-Stammlager. Anche se ora sappiamo che questi campi, gestiti dall’esercito e destinati agli Internati Militari Italiani, erano diversi da quelli di sterminio, ma lo erano anche da quelli destinati ai prigionieri di guerra. Agli italiani, infatti, i tedeschi non riconobbero lo status di prigioniero in modo da giustificare, nei loro confronti, l’esclusione dai diritti riconosciuti dalla Convenzione di Ginevra. Le condizioni nei campi erano durissime e gli internati italiani furono messi al lavoro coatto. L’orario settimanale era in media di 57,4 ore e nelle miniere di 52,1 (circa nove ore giornaliere). Dei circa 650.000 internati (800.000 secondo altre fonti) da 40 a 50.000 perirono nei lager: 10.000 per la durezza e la pericolosità del lavoro, 23.000 per malattie e malnutrizione, 2.700 a causa dei bombardamenti alleati, 5-7.000 perirono sul fronte orientale e 4.600 furono le esecuzioni capitali, comminate dai tedeschi anche per motivi risibili o per mera rappresaglia. Elio stesso raccontò di essere scampato alla forca, installata nella spianata dell’appello, solo in ragione della sua corporatura minuta che lo faceva sembrare ancor più giovane dei diciannove anni che aveva. Motivo della sentenza: la raccolta di bucce di patata dai rifiuti delle cucine. Raccontava anche di aver potuto resistere e sopravvivere grazie alle bucce e qualche pezzetto di pane che gli serbava e passava attraverso la rete delle due sezioni, maschile e femminile, una giovane prigioniera russa: un altro piccolo esempio di come nemmeno l’inferno in terra, com’è stato giustamente definito il lager, può sopprimere l’essenza umana. Nell’agosto del 1945, quando, a quattro mesi dalla fine della guerra, i prigionieri furono definitivamente liberati, i due giovani si incamminarono insieme verso sud nell’intento di raggiungere l’Italia. Approssimandosi al Friuli, Elio raccolse la voce che Tramonti di Sotto era stata bruciata dai tedeschi per rappresaglia e che molti abitanti vi erano periti. Il nuovo durissimo colpo, il timore di non ritrovare la casa e i parenti, lo indussero a separarsi dalla giovane russa e proseguire da solo con i più tristi presagi. Scoprì più avanti che il paese bruciato era Forni di Sotto e non Tramonti, un malinteso che aggiunse altre pene a chi già tanto aveva sofferto.
Lo Stammlager VIII A, situato a Görlitz, nel sud-est della Germania, era già stato liberato dai sovietici, durante la loro avanzata, il 14 febbraio del 1945. Qui erano stati concentrati anche dei prigionieri russi, 12.000 dei quali vi avevano trovato la morte. Per questo, il comando russo fu irremovibile e il Kapò fu giustiziato immediatamente con la forca issata da lui stesso nella spianata dell’appello. La corda era già stata ritirata, toccò al prigioniero più giovane issarsi sulla trave e rimetterla in sede. Al resto pensarono i prigionieri più anziani e i liberatori. I tempi e le circostanze non permisero esiti diversi. Il proseguio della guerra sino a maggio e la complessa situazione che ne seguì costrinsero gli ex prigionieri del campo a rimanere in Germania sino ad agosto, quando finalmente poterono intraprendere la via di casa, ove cercare di dimenticare la dura esperienza vissuta e riannodare i fili di una vita segnata da eventi così laceranti.
In precedenza, tra il 1940 e il 1941, quando la guerra – sempre inumana - non era ancora, un’immane e orribile tragedia, il campo di Görlitz aveva ospitato dei prigionieri francesi. Il comandante di allora, appassionato di musica, saputo che tra di essi vi era un certo Olivier Messiaen, musicista e compositore, si adoperò perché questi potesse tenere un concerto nel campo. Per l’occasione il maestro compose un’opera del tutto nuova, il Quatuor pour la fin du Temps, capolavoro allegorico in omaggio all'Angelo dell'Apocalisse, che alza la mano verso il cielo dicendo: "Non ci sarà più il Tempo". Il Quartetto per la fine del Tempo, composizione da camera, è considerato uno dei più alti esempi di musica del ventesimo secolo. E’ un’opera con precisi e profondi riferimenti religiosi, filosofici e tecnici (musicali). Il concerto cameristico fu eseguito la prima volta il 15 gennaio del 1941, sotto la neve e in condizioni inimmaginabili, di fronte a tutti i prigionieri dello Stalag VIII A radunati in un piazzale gelato. Gli altri musicisti a eseguire il Quatuor con Messiaen furono: Henri Akoka (clarinetto), Jean Le Boulaire (violino) e Étienne Pasquier (violoncello). I nazisti riuscirono a procurare per Pasquier un violoncello con tre sole corde e il pianoforte su cui suonò Messiaen era talmente vecchio e malmesso che i tasti, una volta premuti, restavano abbassati. Ci piace credere che l’eco della musica abbia aleggiato a lungo sulle baracche del campo e recato conforto al giovane Elio e con lui a tutti gli uomini e le donne che vi hanno sofferto la prigionia.

Tutto questo non si sapeva tal curtîf da la Palcodana, a Tramonti di Sotto, in quel novembre del ’43. Né si sapeva da dove arrivasse quella cartolina, se non dalla Germania, nome che già incuteva timore. Per le tre donne, Madre, Nonna e Sorella, la cartolina riportava la speranza del ritorno che si sarebbe concretizzato solo due anni più tardi. Ora sappiamo che l’M-Stammlager VIII A era un campo di prigionia base, situato a Görlitz, una cittadina vicino a Dresda nel sud-est dell’attuale Germania, ai confini con la Polonia e la Repubblica Ceca. Il campo, recintato con il filo spinato, era costituito da baracche di legno che ospitavano le cuccette a castello per i prigionieri. Progettato per 15.000 “ospiti”, ve ne furono ammassati anche 47.000. Come ricordato, nelle varie fasi della guerra, vi furono concentrati prigionieri francesi, polacchi, inglesi, russi e infine gli IMI (Internati Militari Italiani). Attualmente Görlitz è una città di 57.000 abitanti, la sua bellezza è dovuta alla graziosa armonia di stili architettonici: un insieme di palazzi gotici, rinascimentali, barocchi e Art nouveau. Il campo di prigionia è stato completamente demolito, solo una stele ne ricorda il sito e le sofferenze dei reclusi e, naturalmente, le note di Messiaen con l’ammonimento dell’Angelo dell’Apocalisse: “Non ci sarà più il Tempo; almeno per questo no, speriamo.
La guerra era finita da alcuni mesi, chi ne era scampato aveva fatto ritorno, c’era voglia di dimenticare, di ricominciare a vivere. La brezza di primavera aveva attutito l’eco della battaglia sul monte Rest, le voci secche dei caucasici e dei tedeschi durante i rastrellamenti. Il sole d’estate aveva asciugato il sangue dei martiri di Palcoda, fucilati contro il muro del piccolo cimitero dietro la chiesa di Tramonti di sotto. Restava il dramma dei dispersi, degli internati di cui ancora non si sapeva nulla; tra questi Elio sempre atteso dalle “Carissime Manna, Nonna e Sorella”. E, ad agosto, senza preavviso, egli tornò. A stento fu riconosciuto quando giunse in Plazzoleta, all’ingresso del paese. Poi la voce corse fulminea per il borgo e tutti si riversarono tal curtîf da la Palcodana (la cara Nonna di Elio) per riabbracciare e festeggiare il reduce. Poche furono le domande ed evasive le risposte sugli anni della prigionia: bisognava farsene una ragione, magari dimenticare. Più avanti negli anni, invece, Elio cominciò a raccontare perché, come diceva: “doveis savê”. Dobbiamo sapere e dobbiamo ricordare.

                                                                                                                                    Ubaldo Muzzatti