Translate

sabato 30 marzo 2013

UNA RIVOLUZIONE PACIFICA


E’ auspicabile e necessaria per riformare l’Italia

Henri Charriere ha avuto grande successo con il libro autobiografico “Papillon” che narra della sua detenzione e fuga dalla colonia penale della Guyana francese. Un successo ancora maggiore ha avuto la trasposizione cinematografica del regista F.J. Schaffner con le indimenticabili interpretazioni di Steve Mc Queen e Dustin Hoffman.
La frase di Beppe Grillo: “Siamo la rivoluzione francese senza la ghigliottina”, però, ci fa ricordare che quasi sicuramente “Papillon” ha attinto a piene mani dall’opera di un suo connazionale, René Belbenoit, che prima di lui aveva “soggiornato” alla Gyuana, ne era evaso e ne aveva scritto il libro “Ghigliottina secca” meno noto, ma sicuramente più autentico. “Ghigliottina secca” era definito il trattamento riservato ai condannati e volto al loro annullamento senza spargimento di sangue.
Grillo, dichiara apertamente di perseguire una “rivoluzione francese” in Italia. Una rivoluzione pacifica, senza violenze e con gli strumenti della democrazia, ovvero partecipando alle elezioni con i candidati che si riconoscono nel “Movimento 5 stelle” e, quasi, vincendole al primo tentativo. Già questo comporterebbe riconoscenza per l’ex comico genovese. Se poi la rivoluzione pacifica riuscisse … e si riuscisse a riportare in rotta la nave italiana…
Molti seri commentatori ammonivano da tempo: “Siamo in una fase pre-rivoluzionaria”. Invano, il Palazzo non recepiva e, molti degli storici inquilini, paiono ancora non comprendere. Gioverà ricordare loro che, se fallisce la rivoluzione pacifica, sarà difficile evitare quella turbolenta se non cruenta? Speriamo, dunque, che il Signor Giuseppe Grillo e il Movimento da lui fondato riescano nell’intento di “sbloccare” l’Italia e avviare quella stagione di riforme, vere e incisive, di cui si parla da decenni.
Qualche anno addietro, in tempi non sospetti rispetto alle contingenze attuali, ebbi modo di confrontarmi con un qualificato osservatore della società italiana, professore universitario, saggista e commentatore sulla stampa. Dopo che avevano passato in rassegna il desolante panorama nazionale, io chiesi sconsolato: “Ma, allora professore, cosa possiamo fare? Non ci resta che la rivoluzione …”. Egli pacatamente mi rispose: “E’ certamente necessaria, visto che per via ordinaria non se ne esce. Non è detto, però, che debba essere violenta. Bisogna operare per un movimento radicale, determinato, una rivoluzione, appunto, ma pacifica. Gli esempi recenti non mancano dall’ex Unione Sovietica, alla Polonia; dall’ex Cecoslovacchia al Portogallo e prima ancora Spagna…”.
Che sia la volta buona per l’Italia?

venerdì 29 marzo 2013

PREVIDENZA, UNA RIFORMA DA RIFARE

 Non solo esodati, molte ingiustizie da sanare per pensioni veramente eque

La riforma previdenziale "Monti - Fornero" si apre, dichiarando di uniformarsi a criteri di "equità e convergenza intragenerazionale e intergenerazionale, con abbattimento dei privilegi e clausole derogative soltanto per le categorie più deboli". Si è poi visto, sopratutto in base ai contenuti delle circolari applicative emanate dall' INPS, che così non era e ancora non è. 

Molto si è parlato, nei mesi scorsi, del problema degli esodati, ovvero di quanti - a seguito della riforma - si sarebbero trovati senza lavoro, senza stipendio e senza pensione per ancora molti anni. Vi erano poi i problemi di quanti avevano avuto l'autorizzazione alla contribuzione volontaria, di quanti avevano maturato il diritto alla pensione minima con quindici anni di contribuzione e se l'erano visto riconfermato tanto dalla riforma "Amato" quanto dalla successiva "Dini". Il tutto sino alla riforma "Fornero" o meglio sino alla pubblicazione della circolare INPS n. 35 del 2012, dove la contribuzione minima era fissata, senza deroga alcuna, a 20 anni. Il problema dei così detti "quindicenni" è stato risolto in seguito, con una nuova circolare che riconosceva i diritti acquisiti nelle forme stabilite in precedenza.

La riforma "Fornero" porta ad almeno 20 anni di versamenti  anche i lavoratori inseriti nel sistema contributivo, ovvero quanti hanno cominciato a lavorare dopo il 31.12.1995. Abolendo di fatto la possibilità di ottenere un trattamento minimo e, ovviamente proporzionale ai versamenti, anche con 5 anni di lavoro. Cosa prevista in precedenza e caposaldo del sistema contributivo. Per quanti avranno una contribuzione inferiore ai 20 anni è previsto un assegno pensionistico solo a partire dai 70 anni di età e purché vi siano effettivi versamenti per almeno 5 anni. 

Si apriva, in questo modo, uno spiraglio per i c.d. contributi silenti, ovvero per i lavoratori, sopratutto donne, con pochi anni di versamenti che - con le regole precedenti - potevano perdere del tutto prima 15 e poi 20 anni di contribuzione. Se non che, con la circolare INPS già nominata, si è stabilito che la pensione a 70 anni con almeno 5 anni di effettiva contribuzione è riservata ai soli lavoratori con primo versamento dopo l' 1/1/1996. Mentre per i lavoratori che hanno cominciato a lavorare prima resta valida le previsione di 20 anni minimi di contributi per accedere alla pensione.

Ne deriva che un lavoratore, con prima contribuzione (ovvero inizio dell'attività) antecedente al primo gennaio 1996 perde completamente sino a 20 anni, meno una settimana, di contributi versati e rimane senza nessun sostegno pensionistico! Da non credere.

E' del tutto evidente che tanto per chi ha iniziato prima del '96, quanto per chi ha iniziato dopo si tratta di ani di lavoro e di importi trattenuti dalla busta paga versati all' INPS. E allora perché i primi dovrebbero perdere  la loro contribuzione mentre i secondi seppure solo a 70 anni si vedranno riconoscere una pensione? 

Questa è una evidente e macroscopica disequità che inficia i presupposti dichiarati nella legge di riforma. Che, in tutta evidenza, dovrà essere riformata al più presto e per molte ragioni.







giovedì 28 marzo 2013

AUTONOMIA, NON AUTARCHIA



Provate a immaginare cosa sarebbe la nostra vita se non beneficiassimo degli sviluppi culturali, scientifici, tecnologici, economici, che integrano, quanto riusciamo a elaborare autonomamente. Per fortuna vi è circolazione del sapere e del saper fare. Vi è un ambito, però, in cui non vogliamo assolutamente prendere esempi: quello politico e amministrativo. In questo campo vogliamo sbagliare da soli; le esperienze di altri non ci interessano, non sono considerate.
     E’ possibile che, in questo campo, nulla sia traslabile tal quale, ma non dobbiamo ignorare le esperienze altrui, i buoni esempi, le cose che funzionano, si tratta di fare delle scelte e degli adattamenti. In ogni settore, progettare significa elaborare, assemblare, adattare. L’ambito legislativo non può fare eccezione. In Italia ha ripreso vigore il dibattito sulla riforma delle autonomie locali. In realtà si parla esclusivamente della sorte da riservare alle province: chi le vuole abolire tutte, chi in parte, chi accorpare, chi potenziare.
    La riforma delle autonomie locali deve essere complessiva, per tutto il territorio regionale e per tutti i livelli in cui si articolano: dal comune alla regione, passando per le istituzioni intermedie che si vorranno individuare o confermare. E’ certo, infatti, che il sistema, per funzionare, deve essere coordinato e interdipendente.  La riforma deve perseguire contestualmente esigenze di efficacia, efficienza ed equivalenza, nell’erogazione dei servizi, superare i limiti palesati dall’articolazione attuale, prefigurare istituzioni condivise, garantire pari dignità e riconoscimento alle comunità regionali: tutte. I buoni esempi per perseguire questi obiettivi non mancano: basta guardare in Carinzia, in Baviera, nei Grigioni, in Trentino. E adattare, ovviamente.

                                                                                                                                 

IL CASO DELLE PROVINCE ITALIANE


Ogni giorno qualcuno ricorda lo studio della “Bocconi” che attesterebbe l’economicità delle Province e i supposti rischi connessi alla loro soppressione. Naturalmente i difensori d’ufficio sono tutti rappresentati delle medesime istituzioni. Ben altra opinione (ed esperienza), hanno gli abitanti in provincia. Certificate, del resto, da un altrettanto autorevole studio della “Banca d’Italia” che dimostra come le nuove Province abbiano portato benefici solamente ai capoluoghi e che i comuni del territorio sottoposto abbiano subito un arretramento, anche marcato, proprio nei servizi gestiti dall’ente intermedio.

     L’analisi, “Sull’ampiezza ottimale delle giurisdizioni locali: il caso delle province italiane”, condotta da Guglielmo Barone in “Temi di discussione” (facilmente reperibile in rete), lo dimostra chiaramente, sulla base di dati. Cosa che, del resto, era chiaramente percepita e che ha avuto ulteriore conferma dagli studi per la “spending review”: il più alto tasso di spreco è nelle città capoluogo, superiore a quelli di regioni, province e altri comuni.  E’ la struttura centralistica della Provincia italiana che si è dimostrata incapace di gestire il territorio.

     Quanto alle proposte per il suo superamento, se ne leggono di ogni fatta, perché ognuno presenta il “suo disegno” che mira a soddisfare uno o pochi e personali obiettivi. Mentre, una riforma delle autonomie locali deve perseguire una lunga serie di obiettivi, relativi alla quantità e qualità dei servizi da erogare in maniera equivalente a tutti i cittadini, alla sostenibilità economica, all’introducibilità sul territorio e alla condivisione della popolazione, alla compatibilità con il quadro normativo nazionale e comunitario. E altri ancora che andrebbero definiti per guidare l’iter di progettazione della riforma e poter verificare quale, tra le proposte, più e meglio, soddisfa un insieme ragionevole e presentabile di “requisiti e obiettivi” sufficientemente condivisi.                                                                                                                                                  

DIBATTITI e BUONA POLITICA



Approfitto dei dibattiti pre e post elettorali per esprimere un dubbio di lunga data e quindi non attinente ai soli eventi in corso: formazione governo, ipotesi di nuove elezioni.

Dunque, nell’era della televisione e dei talk-show il confronto politico e pre-elettorale avviene principalmente, quasi esclusivamente nei confronti degli elettori, a livello verbale. Appunto con le interviste, i confronti diretti, la partecipazione ai dibattiti televisivi e … teatrali, ovvero in sale più o meno capienti.

Ne deriva che “vince” chi è più attrezzato nella retorica, nella comunicazione verbale e non verbale.
Chi sa parare e anticipare  i colpi del moderatore, soverchiare l’avversario più che con argomenti con l’astuzia e spesso con colpi bassi o la protervia.

Il mio dubbio è: siamo sicuri che chi è più svelto e forbito nel parlare, chi ci incanta (o incarta) sia poi un ottimo politico e/o un buon amministratore, alla prova del fare?

Prima di rispondere inviterei tutti a ripensare ai Vostri compagni di studio e poi di lavoro; ad amici,  conoscenti e parenti. Sono certo che tra i tanti ricorderete che non sempre (quasi mai, io direi) i più svelti, sfrontati, ciarlieri e, perché no, simpatici, sono i più produttivi e concreti, quelli di cui ci fidiamo maggiormente per lo cose importanti.

Io credo, dunque, che i dibattiti come ora praticati, siano senz’altro utili, ma non esaustivi a far emergere le qualità di un candidato e la sua corrispondenza al ruolo che lo attende.

Ad integrazione dei talk-show mi piacerebbe, invece, sottoporre ai candidati legislatori (regionali in questo caso) alcune questioni cruciali ed invitarli a mettere per iscritto – sul posto e senza suggeritori- gli elementi caratterizzanti della legge mediante la quale loro vorrebbero affrontare e risolvere il problema.

Per esempio: “Vuole descrivere le caratteristiche peculiari della legge elettorale che proporrà/appoggerà per riportare il paese alla prassi democratica…); oppure: “Descriva l’articolazione del Sistema Regione-autonomie locali che propone/appoggia e, per ciascun livello individuato, definisca la perimetrazione territoriale e le funzioni attribuite…”.

                                                                                                                      Ubaldo Muzzatti