I cinesi amano molto
l’Italia. Tutto ciò che viene dal “Bel paese”, a partire dagli italiani, li
affascina, li attrae, suscita in ogni cinese interesse, rispetto, voglia di
conoscere, amicizia. Questo ricordo dei miei soggiorni, per lavoro, nel grande
paese asiatico.
Già qualche mese addietro, quando si dibatteva del grande progetto
cinese denominato “Via della seta”, ho sentito e letto posizioni
contrastanti rispetto alle reali intenzioni del governo cinese. Molti sostenevano
l’opportunità di aderire al trattato – come poi si è fatto - intravedendovi
grandi possibilità di commerci e scambi non solo commerciali. Altri, invece,
contrastarono il progetto paventando pericoli derivanti dalle mire
espansionistiche ed egemoni del grande stato asiatico. Oltre alla fronda
interna, bisogna ricordare i tentativi di dissuasione – molto interessati – che
operarono, nei confronti dell’Italia, alcune “potenze economiche amiche” di
entrambe le sponde atlantiche. Salvo poi sottoscrivere, loro stessi, grandiosi
accordi di interscambio con la Cina stessa ben più rilevanti rispetto a quelli
italiani.
Ora, mentre in Italia e nel mondo imperversa la pandemia da Covid-19,
la Cina (dove il contagio è partito e pare sia stato vinto) ci manda degli
aiuti preziosi – mascherine, respiratori, medici – ed immediatamente riparte la
polemica. Si attivano le fazioni contrapposte di chi plaude alla generosa
disponibilità cinese e di chi ritiene si tratti di interventi interessati,
mossi da inconfessabili secondi fini. Con qualche politico – di successo –
che alza i toni sin quasi ad offendere il popolo cinese e sicuramente il suo
governo. Dimentico che, in una situazione tragica, come quella che sta vivendo
l’Italia in questo momento, giovano più le “nazioni interessate” che tendono
la mano, di quelle “consorelle” che si disinteressano a tal punto da negare non
solo l’aiuto ma persino la vendita di forniture essenziali per affrontare
l’emergenza. Dimenticando anche che è lecito avere una politica estera,
condotta senza armi da guerra, e buona cosa avere uno statista che la porta
avanti. Tutte cose di cui avrebbero estremo bisogno tanto l’Italia, quanto
l’Europa.
Ho soggiornato in Cina per lavoro (trasferimenti di know-how,
realizzazione di impianti) più volte e in regioni diverse. In grandi città,
come Changchun (8 milioni di abitanti) e in piccoli centri (700 mila
residenti). È
stata l’occasione per incontrare dirigenti politici (funzionari, commissari che
sovraintendevano la realizzazione degli investimenti) dirigenti industriali,
tecnici, impiegati, operai. Ciò a cavallo dello scorso secolo e di quello
attuale. In tutte queste occasioni ho costantemente riscontrato sentimenti
di amicizia, simpatia e apprezzamento nei nostri confronti e in tutto ciò che
viene dall’Italia. Potrei al riguardo raccontare decine di aneddoti. I
giovani cinesi non fanno in tempo a riconoscerti che, sorridenti, ti si
rivolgono entusiasti e con la loro tipica pronuncia: “Taliano? lacimilan,
lacimilan…”. Ci impieghi un poco, ma poi comprendi che si riferiscono alla
squadra di calcio “A.C. Milan” che tutti all’epoca conoscevano. La
televisione era l’elettrodomestico più diffuso allora, meno frigoriferi e
lavatrici, ma credo – visti gli investimenti fatti anche da noi a Pordenone –
abbiano recuperato negli ultimi anni.
I più anziani, invece, in occasione di qualche cena aziendale o
inaugurazione di stabilimenti, ci invitavano a cantare con loro: “balacioo”.
E solo quando attaccavano ti accorgevi che si trattava del canto partigiano
“Bella ciao”. Anche la musica classica, operistica e popolare italiana è
conosciuta ed apprezzata. Una sera eravamo a cena in un albergo. Da una
sala attigua giungevano le note di musiche e canti locali. Poi all’improvviso
sentimmo distintamente qualcosa di familiare, i versi di una romanza
napoletana. Ci alzammo di scatto, tutti noi italiani, e ci precipitammo ad
ascoltare. Cantava, meravigliosamente, una giovane cinese. E dopo quella prima
ne fece altre: “O paese d’ ‘o sole”, “Torna a Surriento”, per
finire con “O sole mio”. Ci unimmo al coro. Fu una serata memorabile.
Mitica fu anche una cena di addio che organizzammo con i cinesi nel
laboratorio tecnologico che, essendo attrezzato di forni, piastre e becchi
“Bunsen” per i test, si prestava allo scopo. Noi avevamo preparato una
colossale spaghettata con le materie prime che i magazzinieri, in Italia,
avevano cura di infilare nei pertugi delle parti che venivano spedite e poi
recuperate dai montatori. Loro delle anatre laccate stupende. Vino, allora,
poco e non gran che, si brindava “gambei! – ganbei!” con
dell’ottima “pijiu” (birra). Alla fine per accompagnare il dolce (frittelle
farcite con pasta di fagioli) comparvero delle bottiglie di “baijiu” la
grappa locale. Uno dei cinesi lanciò la sfida: uncinò con il suo il braccio
quello di Francone, il capo dei nostri montatori. “A puest tu sos fantat!”,
disse solamente Francone – già artigliere di montagna – e dopo il primo ne
spedì – letteralmente – altri tre sotto il tavolo al grido di “ganbej!”
(salute-prosit).
Sul lavoro i cinesi, quasi tutti giovani, erano attenti e scrupolosi,
con un’ottima preparazione di base, intelligentissimi. Tutto faceva
intendere, già allora, che avevano intrapreso un processo di crescita in tutti
i settori. Che puntualmente li ha portati all’eccellenza in molti comparti
strategici. Seppure con qualche contraddizione. Io stesso, nelle zone
rurali, vidi realizzare delle costruzioni (case, stalle, ricoveri?) con le
canne palustri e l’argilla. Un collega più giovane, che ci è tornato solo due
anni fa, mi dice che si fanno ancora, magari a poche centinaia di metri dai
moderni grattacieli che crescono come i funghi.
La Cina è immensa, 1,5 miliardi di persone con consumi in crescita, una
produzione esuberante e competitiva, in grado di invadere i mercati mondiali.
Ma ha bisogno anche di tante cose. E cinesi amano l’Italia e i prodotti italiani.
Sta a noi, ai governanti e agli imprenditori prima di tutti, trarre profitto da
questa duplice valenza della realtà cinese.
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