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martedì 31 marzo 2020

LA CINA CI E' VICINA


I cinesi amano molto l’Italia. Tutto ciò che viene dal “Bel paese”, a partire dagli italiani, li affascina, li attrae, suscita in ogni cinese interesse, rispetto, voglia di conoscere, amicizia. Questo ricordo dei miei soggiorni, per lavoro, nel grande paese asiatico.
Già qualche mese addietro, quando si dibatteva del grande progetto cinese denominato “Via della seta”, ho sentito e letto posizioni contrastanti rispetto alle reali intenzioni del governo cinese. Molti sostenevano l’opportunità di aderire al trattato – come poi si è fatto - intravedendovi grandi possibilità di commerci e scambi non solo commerciali. Altri, invece, contrastarono il progetto paventando pericoli derivanti dalle mire espansionistiche ed egemoni del grande stato asiatico. Oltre alla fronda interna, bisogna ricordare i tentativi di dissuasione – molto interessati – che operarono, nei confronti dell’Italia, alcune “potenze economiche amiche” di entrambe le sponde atlantiche. Salvo poi sottoscrivere, loro stessi, grandiosi accordi di interscambio con la Cina stessa ben più rilevanti rispetto a quelli italiani.

Ora, mentre in Italia e nel mondo imperversa la pandemia da Covid-19, la Cina (dove il contagio è partito e pare sia stato vinto) ci manda degli aiuti preziosi – mascherine, respiratori, medici – ed immediatamente riparte la polemica. Si attivano le fazioni contrapposte di chi plaude alla generosa disponibilità cinese e di chi ritiene si tratti di interventi interessati, mossi da inconfessabili secondi fini. Con qualche politico – di successo – che alza i toni sin quasi ad offendere il popolo cinese e sicuramente il suo governo. Dimentico che, in una situazione tragica, come quella che sta vivendo l’Italia in questo momento, giovano più le “nazioni interessate” che tendono la mano, di quelle “consorelle” che si disinteressano a tal punto da negare non solo l’aiuto ma persino la vendita di forniture essenziali per affrontare l’emergenza. Dimenticando anche che è lecito avere una politica estera, condotta senza armi da guerra, e buona cosa avere uno statista che la porta avanti. Tutte cose di cui avrebbero estremo bisogno tanto l’Italia, quanto l’Europa.
Ho soggiornato in Cina per lavoro (trasferimenti di know-how, realizzazione di impianti) più volte e in regioni diverse. In grandi città, come Changchun (8 milioni di abitanti) e in piccoli centri (700 mila residenti). È stata l’occasione per incontrare dirigenti politici (funzionari, commissari che sovraintendevano la realizzazione degli investimenti) dirigenti industriali, tecnici, impiegati, operai. Ciò a cavallo dello scorso secolo e di quello attuale. In tutte queste occasioni ho costantemente riscontrato sentimenti di amicizia, simpatia e apprezzamento nei nostri confronti e in tutto ciò che viene dall’Italia. Potrei al riguardo raccontare decine di aneddoti. I giovani cinesi non fanno in tempo a riconoscerti che, sorridenti, ti si rivolgono entusiasti e con la loro tipica pronuncia: “Taliano? lacimilan, lacimilan…”. Ci impieghi un poco, ma poi comprendi che si riferiscono alla squadra di calcio “A.C. Milan” che tutti all’epoca conoscevano. La televisione era l’elettrodomestico più diffuso allora, meno frigoriferi e lavatrici, ma credo – visti gli investimenti fatti anche da noi a Pordenone – abbiano recuperato negli ultimi anni.
I più anziani, invece, in occasione di qualche cena aziendale o inaugurazione di stabilimenti, ci invitavano a cantare con loro: “balacioo”. E solo quando attaccavano ti accorgevi che si trattava del canto partigiano “Bella ciao”. Anche la musica classica, operistica e popolare italiana è conosciuta ed apprezzata. Una sera eravamo a cena in un albergo. Da una sala attigua giungevano le note di musiche e canti locali. Poi all’improvviso sentimmo distintamente qualcosa di familiare, i versi di una romanza napoletana. Ci alzammo di scatto, tutti noi italiani, e ci precipitammo ad ascoltare. Cantava, meravigliosamente, una giovane cinese. E dopo quella prima ne fece altre: “O paese d’ ‘o sole”, “Torna a Surriento”, per finire con “O sole mio”. Ci unimmo al coro. Fu una serata memorabile.
Mitica fu anche una cena di addio che organizzammo con i cinesi nel laboratorio tecnologico che, essendo attrezzato di forni, piastre e becchi “Bunsen” per i test, si prestava allo scopo. Noi avevamo preparato una colossale spaghettata con le materie prime che i magazzinieri, in Italia, avevano cura di infilare nei pertugi delle parti che venivano spedite e poi recuperate dai montatori. Loro delle anatre laccate stupende. Vino, allora, poco e non gran che, si brindava “gambei! – ganbei!” con dell’ottima “pijiu” (birra). Alla fine per accompagnare il dolce (frittelle farcite con pasta di fagioli) comparvero delle bottiglie di “baijiu” la grappa locale. Uno dei cinesi lanciò la sfida: uncinò con il suo il braccio quello di Francone, il capo dei nostri montatori. “A puest tu sos fantat!”, disse solamente Francone – già artigliere di montagna – e dopo il primo ne spedì – letteralmente – altri tre sotto il tavolo al grido di “ganbej!” (salute-prosit).
Sul lavoro i cinesi, quasi tutti giovani, erano attenti e scrupolosi, con un’ottima preparazione di base, intelligentissimi. Tutto faceva intendere, già allora, che avevano intrapreso un processo di crescita in tutti i settori. Che puntualmente li ha portati all’eccellenza in molti comparti strategici. Seppure con qualche contraddizione. Io stesso, nelle zone rurali, vidi realizzare delle costruzioni (case, stalle, ricoveri?) con le canne palustri e l’argilla. Un collega più giovane, che ci è tornato solo due anni fa, mi dice che si fanno ancora, magari a poche centinaia di metri dai moderni grattacieli che crescono come i funghi.
La Cina è immensa, 1,5 miliardi di persone con consumi in crescita, una produzione esuberante e competitiva, in grado di invadere i mercati mondiali. Ma ha bisogno anche di tante cose. E cinesi amano l’Italia e i prodotti italiani. Sta a noi, ai governanti e agli imprenditori prima di tutti, trarre profitto da questa duplice valenza della realtà cinese.

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