Ogni giorno qualcuno ricorda lo studio della “Bocconi” che
attesterebbe l’economicità delle Province e i supposti rischi connessi alla loro
soppressione. Naturalmente i difensori d’ufficio sono tutti rappresentati delle
medesime istituzioni. Ben altra opinione (ed esperienza), hanno gli abitanti in
provincia. Certificate, del resto, da un altrettanto autorevole studio della
“Banca d’Italia” che dimostra come le nuove Province abbiano portato benefici
solamente ai capoluoghi e che i comuni del territorio sottoposto abbiano subito
un arretramento, anche marcato, proprio nei servizi gestiti dall’ente
intermedio.
L’analisi, “Sull’ampiezza
ottimale delle giurisdizioni locali: il caso delle province italiane”, condotta
da Guglielmo Barone in “Temi di discussione” (facilmente reperibile in rete),
lo dimostra chiaramente, sulla base di dati. Cosa che, del resto, era
chiaramente percepita e che ha avuto ulteriore conferma dagli studi per la
“spending review”: il più alto tasso di spreco è nelle città capoluogo,
superiore a quelli di regioni, province e altri comuni. E’ la struttura centralistica della Provincia
italiana che si è dimostrata incapace di gestire il territorio.
Quanto alle
proposte per il suo superamento, se ne leggono di ogni fatta, perché ognuno
presenta il “suo disegno” che mira a soddisfare uno o pochi e personali
obiettivi. Mentre, una riforma delle autonomie locali deve perseguire una lunga
serie di obiettivi, relativi alla quantità e qualità dei servizi da erogare in
maniera equivalente a tutti i cittadini, alla sostenibilità economica, all’introducibilità
sul territorio e alla condivisione della popolazione, alla compatibilità con il
quadro normativo nazionale e comunitario. E altri ancora che andrebbero definiti
per guidare l’iter di progettazione della riforma e poter verificare quale, tra
le proposte, più e meglio, soddisfa un insieme ragionevole e presentabile di
“requisiti e obiettivi” sufficientemente condivisi.
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