Nel
mercato globale c’è ancora spazio per la piccola impresa italiana e l’artigianato?
Intervista di Luigi
Scian a Ubaldo Muzzati “Voce civica”
Ubaldo Muzzati ,
perito industriale, sessantaquattrenne ora in pensione, residente a Cordenons, ha iniziato la sua attività
lavorativa nel 1970. Nei primi quindici
anni ha lavorato con diverse aziende italiane ed estere tra cui la Zanussi, la
Siplast Italiana, La Valli Zabban Spa e
la Texas Refinery Corporation quasi
sempre in qualità di direttore tecnico e responsabile produttivo, per poi
intraprendere dal 1986 e fino alla pensione, l’attività di consulenza aziendale
di organizzazione e progettazione aziendale. Ha operato con diversi paesi
esteri tra cui, USA, RUSSIA, CINA, FRANCIA, BELGIO SPAGNA,SVEZIA, DANIMARCA,
etc. oltre che ovviamente con diverse realtà italiane.
Lo incontro un venerdì mattina in piazza
a Cordenons per un’analisi e un contributo, data la sua notevole esperienza nel
settore, sulla crisi delle nostre
piccole e medie imprese e sulle possibilità di superare l’attuale momento. Ecco
le domande e le sue risposte.
D. Lei che ha fatto da consulente
organizzativo e produttivo, per molti anni, a molte piccole aziende
manifatturiere della nostra zona, come ha trovato, professionalmente parlando,
i nostri imprenditori? Quali sono i pregi e quali sono state le necessità o le
carenze del nostro imprenditore, che ha riscontrato nell'ambito della sua
attività di consulenza?
R. Ho sempre
trovato gli imprenditori della nostra zona competenti e attenti agli aspetti
tecnici; con buone capacità di sviluppare il prodotto, l’impiantistica
necessaria e di organizzare la produzione. Ho riscontrato poi una notevole
vocazione a ideare e realizzare soluzioni appropriate e, spesso, innovative,
tanto di prodotto quanto di processo. Buona parte delle nostre aziende
manifatturiere traggono origine proprio dalla competenza e inventiva tecnico-produttiva del fondatore.
Per contro, e non potrebbe essere altrimenti, ho riscontrato spesso carenze in
ordine all’analisi costistica e al controllo di gestione che si riverberava,
non di rado, negativamente sui margini di contribuzione e infine sul conto
economico e sullo stato patrimoniale dell’azienda. Mi pare, poi, di poter
affermare che gli imprenditori locali, grandi e piccoli e salvo eccezioni,
abbiano difficoltà nell’approccio e nel ricorso agli strumenti finanziari. Ma
la carenza principale, insita nel carattere stesso degli imprenditori friulani,
si riscontra in campo commerciale. Tutto bene finché operano direttamente in
ambito locale, ma quando la dimensione e la crescita impongono una strategia di
mercato, l’organizzazione di una rete di vendita, la pianificazione di azioni
di marketing, sono in pochi a farcela e non di rado questo passaggio è coinciso
con una trasformazione societaria, quando non con la cessione stessa
dell’azienda; in zona i casi sono molti, noti e meno noti.
D. Lei ha avuto contatti con diversi
imprenditori esteri avendo frequentato una decina di Stati dalla Cina agli
Stati Uniti, da alcuni Stati CEE alla Russia, etc. quali differenze ha
riscontrato tra le nostre imprese e quelle estere?
R. In effetti,
le esperienze e gli incontri sono stati tanti e molto diversi tra di loro in
relazione alle situazioni – affatto simili – dei paesi in cui mi sono trovato a
operare. Non possiamo semplicemente
paragonare imprese italiane ed estere, dobbiamo necessariamente collocare il
confronto in un’area più ristretta rispetto a singoli stati, visto che le
organizzazioni aziendali rispecchiano ancora le normative e le politiche
nazionali. Per esempio l’introduzione delle norme EN (European Norm) in tutti
gli stati della UE non ha ancora annullato le impostazioni teutoniche indotte
dalle norme DIN (Istituto normatore tedesco, analogo per funzioni all’ UNI in
Italia) che travalicavano di gran lunga
la Germania e che, però, non hanno mai scalfito il BSI anglosassone (BSI, Istituto
normatore inglese). Lo stesso si può dire a livello mondiale per le ISO
(Istituto normatore internazionale); l’unificazione e la globalizzazione sono
fenomeni in corso ma non certo conclusi.
Tornado alla
domanda, posso rispondere citando alcune delle cose che più mi colpivano, nelle
aziende in cui mi sono trovato all’estero, proprio perché differenti rispetto a
quanto vedevo in Italia. Sono stato dipendente di una grande azienda francese
nei primi anni Ottanta, subito dopo aver lasciato una grande azienda italiana e
locale. Più di tutto mi sorpresero le relazioni sindacali (o industriali che
dir si voglia), la maturità del sindacato francese, capace di mettere in
ginocchio anche lo Stato all’occorrenza, ma che se, per fare un esempio, un
lavoratore non faceva il proprio dovere, come stabilito dagli accordi, lo
riprendeva più e prima dell’azienda. Dubito che ancora oggi sia così in Italia.
In Francia ho compreso l’importanza del controllo dei costi, per loro il “prix de revient” è imprescindibile. Nulla
si fa senza aver calcolato preventivamente ed esattamente i costi di produzione
e di distribuzione di ogni bene o servizio, privato e pubblico (e questo
concorre a spiegare perché la Francia, così simile a noi, sia anche così
diversa). In Svezia fui sorpreso dall’elevata produttività diretta dei
lavoratori, gli unici, tra quelli che ho potuto osservare, che superano gli
italiani in generale, ma sicuramente non i cottimisti e gli artigiani del
Nordest. Negli USA impressiona la naturale propensione all’analisi del valore,
la netta prevalenza degli investimenti immateriali (personale, competenze,
ricerca, brevetti, marketing) rispetto ai materiali; soprattutto per gli
immobili (tanto cari ai nostri imprenditori) si spende il minimo
indispensabile.
In generale è
difficile trovare all’estero un tessuto manifatturiero basato su piccole e
medie imprese. Qualcosa di simile all’artigianato è riscontrabile solo nei
servizi e non nella produzione di beni e, quindi, nel manifatturiero.
D. Secondo Lei perché molte piccole
aziende della nostra zona sono in difficoltà? A causa della globalizzazione,
della crisi nazionale, di un livello elevato della tassazione, di una
dimensione troppo piccola o dalla necessità di riqualificazione
dell’organizzazione e della produttività aziendale?
R. Si potrebbe
semplicemente rispondere: “Sono in crisi perché in Italia stanno venendo meno
le condizioni per fare impresa.” Procedendo con ordine, invece, si può
osservare che, almeno da questo punto di vista, la globalizzazione è neutra, è
parimenti una minaccia e una opportunità. Puoi produrre e vendere tutto e
ovunque (quasi), come essere invaso dalle produzioni degli altri (quasi
sicuramente), dipende dalle capacità della singola impresa (per una parte)
dalle capacità del Sistema nazionale (per molti aspetti). La crisi nazionale
agisce su due fronti: la minore disponibilità e propensione ai consumi falcidia
le imprese con solo mercato interno; purtroppo la crisi nazionale, con i
gravami che ne derivano, frena anche le aziende presenti e competitive sui
mercati esteri. La tassazione elevata è uno, ma non il primo e più pesante,
degli ostacoli all’avviamento e mantenimento delle attività di impresa. Sono
illuminanti, in tal senso, le risposte delle aziende produttive internazionali
alla domanda: “Perché non investite in Italia?” Risposte: “1° - Incertezza del
diritto – lentezza della giustizia; 2° difficoltà e lungaggini burocratiche;
3°costi dell’energia e del lavoro; 4° carenze infrastrutturali; 5° elevata
tassazione;…”. Tra le prime dieci risposte non figura la carenza di manodopera
qualificata o la bassa produttività diretta, ma questo non consola i
disoccupati. La dimensione troppo piccola, per alcune tipologie produttive, è
un limite ma non assoluto e insormontabile. Lo dimostrano tante eccellenze che
riescono a farsi valere nel mondo a dispetto della loro limitata dimensione,
gli esempi sono moltissimi. In generale però si fa urgente l’esigenza della
crescita dimensionale, anche attraverso forme aggregative, di cooperazione,
quando non di fusione/incorporazione. Riqualificazione e riorganizzazione
devono diventare processi continui, per tutti, grandi e piccoli.
D. La delocalizzazione può essere
un'opportunità, una necessità, o l'impresa può continuare ad operare seppur in
forma diversa rispetto al passato? Quali prospettive per il nostro
"tessuto" imprenditoriale locale, ovviamente sempre nel settore
manifatturiero?
R. La
delocalizzazione è, prima di tutto e se non cambia qualcosa, una necessità che
spesso, ma non sempre, si traduce in un’opportunità. Difficile che si possa
andare avanti “come niente fosse successo”. L’impresa deve e può continuare a
operare, trasformandosi e adattando quello che è di sua competenza e, al
contempo, chiedendo i cambiamenti necessari al Sistema Italia, sperando che
questo dia almeno le risposte minime.
D. Cosa possono fare le istituzioni?
R. Ripristinare
le condizioni perché in Italia si possa intraprendere e, quindi, produrre
(lavorare) e vendere in casa e sui mercati esteri. E, quindi, prima di tutto:
disboscare e semplificare il corpus legislativo (attualmente il più prolisso e
contradditorio del mondo); riformare la giustizia (cause civili chiuse in sei
mesi, come in Francia, per esempio); disboscare, con l’ascia e non il
temperino, la burocrazia a tutti i livelli e per ogni pratica. Poi: adeguamento
dei curricula formativi a tutti i livelli; ricerca di base a loro cura e spese
(università, istituti ed enti) e sostegno a quella applicata (svolta
direttamente dalle aziende); realizzare, adeguare le infrastrutture, materiali
e immateriali, dei trasporti, delle comunicazioni, energetiche; assicurare con norme e prassi strettissime la meritocrazia. Riorganizzare e riqualificare se stesse (le istituzioni) quale unico presupposto per una reale diminuzione del costo sostenuto da cittadini e imprese e rendere effettiva la diminuzione della pressione fiscale. Con quanto sopra (salvo integrazioni) le istituzioni possono eliminare la prassi e persino la locuzione “Contributi alle imprese”.
Luigi Scian
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